Deutero Isaia

Deutero Isaia – Is 40,1-5.9-11 – Battesimo del Signore C

Deutero Isaia. La prima lettura riporta il bellissimo inizio
del cosiddetto «libro della consolazione» di Israele,
che abbraccia i cc. 40-55,
libro che ormai gli studiosi attribuiscono concordemente al Deutero-Isaia,
un profeta anonimo della fine dell’esilio.

Perché questa pagina sia comprensibile, si rende opportuna una premessa storica.

I primi anni d’esilio a Babilonia furono difficili,
ma, in seguito, gli Israeliti si adattarono alla loro nuova condizione
e diversi nondimeno riuscirono addirittura a raggiungere posizioni sociali prestigiose.

Dopo una quarantina d’anni ecco sorgere un profeta, il Deutero Isaia.
È un uomo illuminato, un poeta sensibile, un teologo geniale;
segue con attenzione gli avvenimenti politici del suo tempo
e di conseguenza si rende conto che il regno di Babilonia si sta sgretolando,
mentre cresce vertiginosamente il potere di Ciro, re di Persia.

È giunto perciò il momento di risvegliare negli esuli
la speranza della fine della schiavitù
e dell’imminente ritorno nella terra dei loro padri.

Mosso dallo Spirito di Dio,
il Deutero Isaia comincia anzitutto a far circolare fra i deportati le sue intuizioni,
i suoi presagi e le sue speranze
e, inoltre, per non insospettire le autorità babilonesi,
che lo accuserebbero di essere un sovversivo,
fa ricorso a un linguaggio criptato,
impiega immagini che solo i figli del suo popolo sono in grado di comprendere.

Successivamente, annuncia l’imminente liberazione dalla schiavitù babilonese
richiamando i prodigi accaduti durante l’esodo dall’Egitto
e promettendone di maggiori.

Pochi, peraltro, fra i deportati, coltivano questa sua sensibilità spirituale.
La maggioranza, sedotta dalle lusinghe della vita pagana,
si è ormai integrata pienamente nella nuova realtà sociale e religiosa,
conseguentemente dimentica il glorioso passato
e considera i richiami alle promesse fatte ad Abramo
poco più che fiabe destituite di ogni valore.

Questi esuli, svigoriti nella fede,
incapaci di cogliere i richiami di Dio,
non hanno né il coraggio né la forza di iniziare una vita nuova
e si disperdono fra i pagani.

Par di dover concludere che il pericolo maggiore dell’esilio
non è la sua durezza,
ma le sue seduzioni e le sue attrattive.
Sta di fatto che la storia della salvezza continua tuttavia senza di loro.

È in questo contesto storico che si inserisce la prima lettura.

Il brano si presenta come un coro a più voci.

Dapprima, apre il canto Dio stesso che esorta a «consolare» il suo popolo:
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (v. 1).

In primo luogo, questo invito è rivolto non tanto al Deutero Isaia,
il quale si limita a registrare le parole di JHWH,
quanto piuttosto ad anonimi araldi i quali sono inviati a tutto il popolo,
«Parlate al cuore di Gerusalemme» (v. 2a).

Anzitutto il messaggio è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa,
personificazione del popolo giudaico,
e forse non senza un riferimento specifico ai giudei
che hanno vissuto la tragedia dell’esilio pur restando nella terra dei padri.

Inoltre, i messaggeri devono parlare al «cuore» di Gerusalemme.
Il cuore indica il centro della persona,
dove hanno luogo le scelte determinanti per la vita.
Di conseguenza, «parlare al cuore» di Gerusalemme
significa annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata
dal momento che JHWH ha deciso di ripristinare quel legame d’amore
che lo univa al suo popolo (cf. Os 2,16).

Ancora: il motivo della consolazione di Gerusalemme consiste nel fatto
che «è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati» (v. 2b).

È perciò terminato il servizio coatto
a cui erano sottoposti i suoi abitanti condotti in esilio dai Babilonesi.

Inoltre, la liberazione avviene non come un fatto meccanico,
o per una felice combinazione di eventi e di rapporti di forza, ma bensì,
come i ladri che dovevano pagare il doppio di ciò che avevano rubato (cf. Es 22,3),
analogamente Gerusalemme (gli Israeliti) ha scontato i suoi errori,
li ha pagati duramente, oltremisura,
proprio come sempre accade a chi si discosta dai cammini di Dio.

Infine, il doppio «consolate» ha il valore di un superlativo che esprime certezza e intensità.
Nel linguaggio corrente, consolare equivale, il più delle volte,
a pronunciare parole di conforto,
comunicare un po’ di serenità a chi è afflitto,
ma non modifica la situazione penosa che causa dolore.

La consolazione di Dio, invece, non si riduce a una tenera carezza che rincuora;
Dio consola soccorrendo chi si trova in condizioni disperate,
consola il misero sollevandolo dalla polvere (1 Sam 2,8),
mutando il suo lamento in danza e il suo grido in canto di gioia (Sal 30,12).

Alla preparazione degli animi corrisponde la preparazione del cammino.

In un secondo momento, il Deutero Isaia comunica ora quanto dice «una voce»,
cioè un anonimo messaggero di Dio,
il quale ordina di «preparare» la via al Signore
che sta per ritornare nella città santa,
conducendosi dietro vittoriosamente il suo popolo:

«Nel deserto preparate la via al Signore,
appianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato» (vv. 3-5).

Nei testi babilonesi si parla in termini analoghi di «vie» processionali o trionfali,
preparate per determinate divinità o per il re vittorioso.

La costruzione di una strada è la condizione
perché Dio possa venire a consolare il suo popolo.

Il riferimento al «deserto», in prima battuta,
è una precisa indicazione delle steppe siriane
che i deportati in Babilonia devono attraversare.
Infatti, un immenso deserto separa la Palestina dalla Mesopotamia
e la strada che, nell’antichità,
unisce Babilonia alle città della costa mediterranea non lo attraversa,
ma, risalendo verso nord, lo costeggia per quasi mille chilometri.

In seconda battuta, il riferimento al deserto
è un rimando all’esperienza del primo esodo,
con tutti i prodigi che lo avevano accompagnato.

Ancora di più Dio manifesta adesso la sua «gloria» nei prodigi
che accompagnano questa nuova liberazione tanto che «ogni uomo la vedrà» (v. 5).

La «voce» misteriosa accumula una serie di immagini per evidenziare
gli impegni che deve assumere chi vuole fare spazio a Dio nella propria vita.

Anzitutto chiede di preparare la via al Signore,
non una via che conduca l’uomo a Dio,
ma che permetta a Dio di giungere all’uomo.
L’apertura di questa nuova strada indica la disposizione interiore
ad abbandonare i cammini antichi, quelli che Dio ha sempre rifiutato:
«I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre via non sono le mie vie» (Is 55,8).

Successivamente i monti da abbassare e le valli da colmare
rappresentano gli impedimenti all’incontro, alla comunicazione,
alla reciproca stima fra i popoli di diversa cultura, razza, religione.
Solo rimuovendo questi ostacoli
è possibile preparare la via al Signore,
via dell’intesa, del perdono, della riconciliazione.

In conclusione, saltando quattro versetti,
nel nostro testo, il Deutero Isaia cambia la scenografia,
ambientata non più nel deserto mesopotamico,
ma nel centro spirituale dell’ebraismo,
a Gerusalemme, denominata anche Sion.
È la terza voce,
la voce di uno che, anziché chiamarsi profeta,
si denomina araldo di buone notizie,
un titolo che il greco tradurrà con ‘evangelista’.

Questi è invitato a portare il buon annuncio a Gerusalemme:
«Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion;
alza la voce, con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme.
Alza la voce, non temere,
annuncia alle città di Giuda» (v. 9).
Di conseguenza, se l’annuncio è per Gerusalemme,
e la voce dell’araldo si ode in tutte le città di Giuda,
ciò significa che il suo è un messaggio pubblico
e non riservato a pochi privilegiati (alla sola Gerusalemme).

Il contenuto del messaggio è la presentazione di Dio che,
già resosi manifesto nella sua gloria (v. 5),
ora si distingue per potenza, espressa con la metafora del ‘braccio’.
Dio stesso e non un uomo,
com’era accaduto durante l’esodo dall’Egitto,
precede e guida il suo popolo.

“Ecco il vostro Dio!
Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
con il braccio egli detiene il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto
e conduce pian piano le pecore madri» (vv. 10-11).

Il Signore che ritorna alla testa del suo popolo
è presentato nel nostro testo con due immagini.

La prima è quella del re potente e vittorioso,
che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (v. 10).
Qui il bottino è il popolo stesso
che JHWH ha sottratto alla dominazione straniera.

La seconda immagine è quella di un pastore.
Questo prode guerriero è,
nello stesso tempo, un pastore premuroso
che guida con amore il popolo verso Gerusalemme.

L’immagine del pastore,
molto sfruttata nella tradizione biblica (Ger 23,3; Ez 34; Gv 10,1-11),
è arricchita qui da un delicato tocco di sensibilità materna
nel prendere in braccio gli agnelli e nel condurre lentamente le pecore gravide.

C’è attenzione per tutti e per ciascuno;
ognuno accolto e capito nel proprio bisogno.

In conclusione, il popolo, purificato dall’esilio,
è come immerso nell’amore di Dio
che si manifesta come madre amorosa.

Sta soprattutto qui il ‘lieto messaggio’,
il motivo della consolazione dell’oracolo riferito dal Deutero Isaia.

Un’ultima considerazione.
Il nostro brano è stato proposto
come prima lettura nella Seconda Domenica di Avvento dell’anno B,
e in quel contesto aveva una sua ragione d’essere,
perché la liturgia era finalizzata all’attesa di buone notizie.

Ora è riproposto nella domenica che ricorda il battesimo di Gesù.
Che attinenza ha con ciò?

Diciamo che ha un rapporto piuttosto labile con il mistero che celebriamo oggi,
salvo il rimando a Giovanni Battista,
che la tradizione neotestamentaria (cf. Mt 3,3; Mc 1,3-4; Lc 3,3-6)
ha visto prefigurato in quella «voce» misteriosa,
che esorta a «preparare la via al Signore» che viene (Is 40,3).

Tuttavia, di battesimo, in senso ampio, si può parlare anche in questo oracolo del Deutero Isaia.
Il popolo nuovo è prima purificato e poi relazionato, in modo nuovo, a Dio.
È immerso nel suo amore.

Foto: Pietro Perugino e aiuti, Battesimo di Cristo, affresco (335×540 cm), 1482 ca., facente parte della decorazione del registro mediano della Cappella Sistina, Vaticano / it.wikipedia. org

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