Gerusalemme

Gerusalemme – Is 60,1-6 – Epifania del Signore C

Gerusalemme. La prima lettura è tratta dalla terza parte del libro del profeta Isaia,
in cui un discepolo del grande Profeta
preannuncia alla comunità israelitica lo splendore della futura Gerusalemme.

Con questo canto di gloria,
canto semplice, lirico e metaforico allo stesso tempo,
arriviamo probabilmente a una delle più alte vette della poesia ebraica,
anzi della poesia universale.

Per comprendere questa pagina, sono necessarie due premesse,
una storica e una geografica.
Comincio dalla prima.

Commentando la prima lettura della Messa del giorno di Natale (Is 52,7-10),
si è accennato agli avvenimenti drammatici che nel 587 a.C.
hanno portato alla distruzione di Gerusalemme.

La città umiliata, ridotta a un cumulo di macerie,
appare, agli occhi del profeta, come una vedova che siede sola, avvilita, desolata,
e privata anche dei figli che le sono stati rapiti e deportati in terra straniera.

Passano gli anni e le speranze di un ritorno degli esuli da Babilonia
si assottigliano sempre di più.
«La Signora delle nazioni» (Lam 1,1), «il vanto di tutta la terra» (Is 62,7),
colei che, nel momento del suo splendore,
è stata paragonata a una fanciulla affascinante e corteggiata da tutti,
ora è ridotta a schiava, vecchia e sconsolata.

E ora la premessa geografica.
Gerusalemme è situata su un monte
ai cui fianchi scorrono due valli citate anche nei Vangeli, la Geenna e il Cedron.
Al mattino, quando spunta il sole,
una fulgida luce avvolge la città,
mentre tutt’intorno le valli continuano nelle tenebre della notte.
In ebraico Cedron significa «oscuro».

In questo contesto storico e geografico, ecco che cosa scorge il profeta.

È l’alba e il primo raggio di sole che spunta dal monte degli Ulivi illumina la città.
Par di sognare: improvvisamente, Gerusalemme, la vedova avvizzita,
diviene raggiante, incantevole, torna la ragazza affascinante di un tempo;
un manto di luce la cinge, come un vestito di mille colori.

Il profeta si avvicina e invita la città a gettare via i segni del lutto,
ad alzarsi, ad asciugare le lacrime perché il suo sposo, il Signore,
che l’ha abbandonata a causa delle sue infedeltà,
ora la vuole riprendere (vv. 1-3).

Non torna soltanto lo sposo,
le vengono restituiti anche i figli portati in esilio.
Deve solo alzare gli occhi per vederli.
Tornano da lontano
e coloro che avevano rapite le figlie le riportano in braccio (v. 4).

La visione continua.
Ora il profeta invita Gerusalemme a volgere lo sguardo verso occidente:
all’orizzonte, fra le onde del Mediterraneo,
appaiono le navi mercantili della Fenicia, della Grecia, di Tarsis,
il mitico paese dove il sole ogni giorno conclude il suo corso.
Sono cariche di doni per lei la benedetta (v. 5).
Da oriente giunge uno stuolo di cammelli e di dromedari.
Portano i frutti esotici del deserto d’Arabia e dei favolosi regni di Saba:
spezie, profumi, oro e quanto c’è di più prezioso.

Qual è il senso di questa scena grandiosa?

Il profeta ha in mente un sogno:
il ritorno dei deportati da Babilonia
e la riunione di tutti i dispersi d’Israele.

Un sogno non facile da realizzare
perché gli Israeliti si sono ormai ben sistemati in terra d’esilio
e non hanno alcuna intenzione di affrontare nuovi rischi e imprevisti.
Ne convince alcuni, pochi,
i più si stabiliscono per sempre a Babilonia.

Coloro che ritornano rimangono delusi:
trovano Gerusalemme ancora in rovina,
non si accende alcuna luce,
dal deserto e dal mare vengono sì i popoli, ma per depredare…

Inoltre, i rimpatriati si trovano ad affrontare
la sfida della ricostruzione, non solo materiale,
ma della loro identità politica e religiosa.

Dissidi interni tra coloro che non hanno mai abbandonato la terra d’Israele
e chi vi è ritornato dopo anni di permanenza in una regione straniera,
provocano un movimento di ripiegamento e chiusura in se stessi,
allora come oggi si grida «prima gli…».

Contemporaneamente sorgono all’interno d’Israele
movimenti che scelgono una strada diametralmente opposta:
ricordiamo il libro di Rut,
dove una straniera è proposta non solo come modello di lealtà e di credente,
ma anche come antenata di Davide,
o il libro di Giona
dove un profeta è inviato suo malgrado a testimoniare la misericordia del Dio d’Israele
verso l’Assiria, il nemico giurato di Israele.

In questo contesto, la città santa, Gerusalemme,
devastata dall’invasione nemica,
è invitata a riscoprire la propria bellezza,
a contemplarsi con gli occhi stessi di Dio.

Non le grandi costruzioni o lo splendore dell’antico tempio,
ma la gloria di Dio la rende unica, splendida.

Come all’alba di ogni giorno la luce del sole trasforma la città,
facendola risplendere di una luce che non le appartiene,
così la consapevolezza della presenza del proprio Dio
pone termine alla lunga angosciosa notte dell’esilio.

Dopo aver ricercato invano la propria gloria alleandosi con nazioni potenti,
Israele ha dovuto sperimentare che il potere umano
genera solamente tenebra e nebbia, distruzione ed oppressione:
soltanto l’amore incondizionato di Dio
segna l’avvento di un’alba nuova e definitiva.

Il compito di Israele è allora quello di accogliere la luce,
di rivestirsi di essa, radicandosi nella relazione che lo costituisce.

Nella Scrittura l’abito è segno di identità:
nell’oscurità che avvolge le nazioni la luce di Dio riveste Israele,
dichiarandolo sua proprietà.
Educato dalla sua presenza,
può guardare all’altro non come nemico, ma come fratello,
per gioire in Dio dell’universalità della salvezza.

Il profeta ricorda inoltre che Israele è scelto come testimone.
Israele esiste, dunque, per l’annuncio,
un annuncio che non si caratterizza come andare,
ma come attirare:
la città santa è un faro di luce,
perché la luce stessa, la gloria di Dio, abita in essa.

Una nazione costretta al silenzio nei lunghi anni dell’esilio
è ora invitata ad alzare lo sguardo, a «vedere»,
ad aprirsi all’accoglienza di chi, pur straniero, le è donato da Dio come figlio.
Popoli e nazioni abbandonano le loro tenebre,
si recano là dove Dio ha posto la sua dimora:
con loro conducono «figli e figlie» per ricostruire il popolo di Dio, la città santa.

Gerusalemme, tuttavia, deve vivere la consapevolezza
del ruolo strumentale cui è chiamata, in relazione con Dio.
La meta ultima del viaggio non è, infatti, la città santa e neppure il suo tempio,
ma Dio stesso:
«Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba,
portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore» (v. 6).

Quando si è realizzata questa profezia?

Nonostante il comprensibile sconforto e smarrimento
perché quest’alba nuova e definitiva tarda ad arrivare,
Israele non pensa minimamente che il Signore lo stia ingannando
o possa mancare di parola.
Anche nei momenti più difficili, la profezia continua a essere ripetuta:
«Affluiranno qui i tesori di tutti i popoli» (Ag 2,7);
«I re di Tarsis e delle isole porteranno offerte,
i re degli arabi e di Saba offriranno tributi» (Sal 72,10).

Quel giorno giunge e la sorpresa di Dio è tanto grande che lo stesso profeta
– se ancora fosse in vita – rimarrebbe sorpreso e sbalordito.

La luce uscita da Gerusalemme e che inonda il mondo è quella della Pasqua.
Da quel giorno tutti i popoli
hanno iniziato il loro pellegrinaggio verso «il monte del Signore»,
verso quella comunità eletta, la Chiesa,
che è stata posta sul monte (cf. Mt 5,14)
come segno per tutti gli uomini dell’inizio del regno di pace sulla terra.

Perché questa prima lettura è proposta per la festa dell’Epifania?

Epifania significa «apparizione del Signore».
In Oriente, dove è nata,
questa festa è stata istituita non per ricordare i magi,
ma la nascita di Gesù, il Natale, l’apparizione della luce.

In Occidente,
– dove il Natale era celebrato il 25 dicembre –
fu accolta nel IV secolo
e divenne la festa della «manifestazione della luce del Signore» ai pagani
e della chiamata universale di tutti i popoli alla salvezza in Cristo.

Foto: Albrecht Dürer, Adorazione dei Magi, olio su tavola (1504), Galleria degli Uffizi, Firenze / it.wikipedia.org

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