Servo di Yahweh

Servo di Yahweh

Servo di Yahweh. La Prima Lettura è tratta dal libro del profeta Isaia.

Quando san Girolamo tradusse questo libro, rimase talmente sorpreso da affermare che Isaia non era solo un profeta che guidava il suo popolo, ma un evangelista che cantava la pace e la fede del Vangelo. Questo lo diceva dopo aver tradotto i numerosi passi messianici e, soprattutto, i canti del Servo di Yahweh, presenti nel testo.

Questi canti sono quattro composizioni poetiche che celebrano il misterioso personaggio chiamato appunto Servo di Yahweh.

Il termine “servo” indica talora una sottomissione obbligata e opprimente; allora il vocabolo “servo” diventa sinonimo di “schiavo”. Spesso però il termine, legato al nome di Dio, esprime sì un legame di dipendenza, che risulta però temperata da una forte carica affettiva. Abramo è chiamato Servo di Yahweh (Dt 9,27) e di tale appellativo si fregiano tanto altri personaggi biblici come Mosè (Nm 12,7), Isacco e Giacobbe (Dt 9,27), Davide (2 Sam 7,5), Geremia (Ger 7,25). Anche Maria si proclama “Serva di Yahweh” (Lc 1,38). Nel nostro caso, Servo di Yahweh rimane designazione unica e propria di questo personaggio.

Ripetuti tentativi hanno voluto dare un nome e un volto al Servo di Yahweh. Si è pensato al popolo di Israele, allo stesso Isaia, a Ciro il liberatore che ha permesso agli Ebrei esiliati a Babilonia di ritornare in patria, e ad altri personaggi ancora. Nessun candidato risponde pienamente ai requisiti necessari per essere identificato come il Servo di Yahweh, uomo scelto da Dio, di integra fede, al quale è stata affidata una missione universale. Bisognerà attendere Gesù Cristo per trovare la risposta definitiva.

Sul messianismo dei primi tre canti gli stessi rabbini avevano dimostrato un sostanziale accordo perché, oltre alla terminologia, anche i tratti essenziali concordavano con l’idea tradizionale del Messia. La difficoltà maggiore sorge a proposito del quarto canto, là dove si sostiene che il Servo di Yahweh sarà portatore di salvezza solo mediante l’offerta della sua vita.

Esaminiamo più da vicino questo canto nella sua struttura.

Il prologo (52,13-15) e l’epilogo (53,11-12) contengono una parola di Yahweh che presenta il suo Servo anticipando il senso della sua missione e confermando, alla fine, il valore salvifico della sua sofferenza e morte.

La parte centrale (53,1-10), composta da quattro strofe, è un intreccio narrativo in cui, oltre il nome del Signore, entra in scena il plurale noi e il pronome singolare egli. Nel noi parla l’autore stesso del canto, come portavoce del popolo. Nel egli ci si riferisce al Servo di Yahweh.

Questo Servo entra in scena sotto l’immagine di un “virgulto” che è spuntato in un arido deserto: «È cresciuto come un virgulto davanti a lui, e come una radice in terra arida. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,2-3).

Se altrove l’immagine del “virgulto” richiama l’idea della gioia (cf Is 11,1-10), perché sta a indicare che la “vita” continua e le “promesse” di Dio si compiono, qui si mette in evidenza la difficoltà con cui il Servo di Yahweh riesce persino a sopravvivere: la “terra”, che dovrebbe alimentare questa “radice”, è “arida” come il deserto, in cui a stento fiorisce qualche segno di vita!

È un uomo isolato, quindi; non ha predecessori illustri. Il suo stesso esistere è un miracolo, è dono divino, è grazia perché non può essere generato ed alimentato dalla terra arida in cui appare. È l’unica presenza viva all’interno del mondo morto e desolato del peccato umano.

Gli altri uomini lo hanno come emarginato, proprio per questo la sua sofferenza è anche più grande, perché è solo a portarne il peso schiacciante. Tanto che può essere definito «uomo dei dolori» (v. 3): in lui l’umanità sembra identificarsi con la sofferenza stessa!

Quello che è più strano è che Dio stesso sembra si sia accanito contro di lui: «Al Signore piacque stritolarlo con la sofferenza» (v. 10). Abbiamo qui la sensazione di un Dio crudele, che si sia accanito insieme agli altri uomini per demolire il suo “Servo”.

In realtà, non è così: e qui ci viene in aiuto la Prima Lettura che prende in considerazione solo gli ultimi due versetti del quarto canto del Servo di Yahweh.

Al di là della sofferenza Dio ha previsto un esito di salvezza per tutti gli uomini, che proprio da quella sofferenza saranno riscattati dal male, dalla loro cattiveria, dal loro egoismo.

E quella sofferenza li salverà non perché abbia in sé e per sé un magico valore “catartico”, quasi un prezzo da pagare alla divinità adirata contro di loro, come spesso si è pensato e detto, ma perché è l’espressione più grande dell’amore e della fedeltà a Dio, liberamente offerta da un essere creato.

È quanto possiamo leggere nel testo odierno: «Il giusto mio servo giustificherà molti, addossandosi egli le loro iniquità» (v. 11). L’espressione molti (in ebraico rabbìm = molti) è da intendere in senso inclusivo (= tutti) e non esclusivo (molti, ma non tutti). Li giustifica nel senso che li riporta all’interno del giusto rapporto con Dio, addossandosi al contempo la loro colpa.

È attraverso il sacrificio, la sofferenza, il dono di sé che Dio attua i suoi progetti di salvezza.

Proprio perché vittima dell’odio, dell’ingiustizia, della violenza, il Servo di Yahweh libera i suoi stessi persecutori dalle loro iniquità e costituisce l’immagine perfetta di Gesù che ha salvato gli uomini non dominandoli, ma umiliandosi, inginocchiandosi davanti a loro per servirli (cf. la lavanda dei piedi nell’ultima Cena), donando la propria vita.

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Con questa pagina della Scrittura ci siamo inoltrati nel mistero dell’amore di Dio, della sofferenza del Figlio e della salvezza e vita di tutti gli uomini e di ciascuno di noi. Ora la Parola di Dio dovrebbe essere la garante di questa drammatica e stupenda realtà, che se capita e accolta nella fede inciderebbe profondamente sulla nostra vita. Di fatto, però, ci comportiamo come se questo mistero non si fosse realizzato o non fosse vero o non ci riguardasse.

Un pastore, un giorno, ebbe la visita di un caro vecchio amico al quale domandò di condividere con i fedeli presenti in chiesa quello che aveva nel cuore di dire. Quest’uomo, ormai avanti negli anni, iniziò a narrare una storia:

«Un padre, suo figlio e un amico del figlio stavano veleggiando al largo delle coste del Pacifico, quando arrivò un’improvvisa tempesta che impedì loro di recuperare la riva, anzi la barca a vela era portata alla deriva. Le onde erano così alte che, anche se quel padre era un provetto marinaio, non riuscì a tenere l’imbarcazione: la barca si rovesciò gettando i tre in mare».

Mentre l’anziano esitò un attimo nel racconto, vide due adolescenti che lo guardavano fisso, ascoltando attentamente la storia. Poi l’uomo riprese a narrare:

«Quel padre fece appena in tempo ad afferrare una fune di salvataggio e si trovò a prendere la decisione più difficile della sua vita, gettando la fune ad uno dei due: il figlio o l’amico del figlio. Quell’uomo sapeva che suo figlio era convertito e l’altro ragazzo no: Nell’agonia del momento gridò al figlio: “Ti amo!”, “Ti amo!” e gettò la fune all’amico del figlio, mentre il figlio spariva in mezzo alle onde.

Quel padre sapeva che suo figlio sarebbe andato con Gesù, mentre il suo amico avrebbe affrontato l’eternità lontano da lui. Perciò decise di sacrificare suo figlio per salvare l’amico del figlio».

A quel punto l’anziano riprese il suo posto, mentre il pastore recuperò il pulpito per presentare il messaggio della Parola di Dio.

Appena finito il culto, i due adolescenti si avvicinarono all’uomo e molto educatamente gli dissero: «Bella storia, toccante, ma non pensiamo sia vera: un padre che sacrifica suo figlio nella speranza – improbabile – che l’altro ragazzo si converta, non è umanamente possibile».

Quell’uomo, ormai avanti nell’età, stringendo tra le mani la sua Bibbia consumata, disse a quei ragazzi con un sorriso:

«È vero, non è umanamente possibile, ma questo è ciò che ha fatto il nostro Padre celeste, gettando una fune all’uomo in preda alla tempesta del peccato, sacrificando suo Figlio Gesù per offrirci salvezza… e poi, sapete, io sono quel padre della storia ed il vostro pastore era l’amico di mio figlio».

Foto: Chiesetta della Madonna Assunta, Passo Rolle con sullo sfondo il Cimon della Pala (TN) / italiawiki.com

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