Geremia

Geremia – Ger 23,1-6 – XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Geremia pronuncia l’oracolo,
ascoltato nella I Lettura,
verso la fine del VII secolo a.C.,
in un momento sociale e politico
particolarmente difficile.

All’inizio, Geremia aveva riposto
molte speranze nel giovane re Giosia
che pareva peraltro suscitato dal Signore
al fine di riunire le tribù disperse d’Israele.
Ma, in un’infausta battaglia
nella pianura di Meghiddo,
questo re pio e saggio muore in modo tragico.

Al trono sale allora suo figlio, Ioiakìm,
un imbelle, un corrotto, amante del lusso.

Questi si disinteressa del tutto dei poveri,
pensa soltanto a costruirsi splendidi palazzi,
e, inoltre, non paga gli operai.
Per di più, commette angherie e permette
che nei tribunali vengano puniti innocenti
e assolti colpevoli.

Politicamente è sicuramente un inetto:
si allea con l’Egitto e, soprattutto
compie l’insensatezza di sfidare
l’impero babilonese
che, in questo momento,
è all’apice della sua potenza.

Nabucodònosor, allora, lo affronta
e lo sbaraglia.
Poco dopo Ioiakìm muore,
verosimilmente assassinato
dai suoi oppositori politici.

Gli succede il figlio
che è subito fatto prigioniero
da Nabucodònosor e sostituito
con un altro figlio di Giosia,
Mattania,
cui viene imposto il nome di Sedecia.

La situazione, tuttavia, non migliora
perché Sedecia manca di personalità e,
soprattutto, è circondato da consiglieri dissennati
che lo incitano a riprendere le armi
contro Babilonia.

È la rovina. Gerusalemme è ridotta
a un cumulo di macerie
e il popolo è deportato in terra straniera.

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È in questo contesto storico
che va collocato
l’oracolo di Geremia,
proposto nella I Lettura di oggi.

L’esordio (v. 1) è costituito
da un’inappellabile condanna,
da parte del Signore,
dei capi politici che,
ad eccezione del pio Giosia,
si sono dimostrati infedeli a Dio
e insensibili alle parole dei profeti.

Sono paragonati a pastori che,
invece di essere premurosi
e attenti ai bisogni del gregge loro affidato,
lo stanno, al contrario,
conducendo alla rovina.

Non è certamente la prima volta
che Geremia impiega questa immagine;
lo ha già fatto altre volte
e sempre al fine di deplorare
l’operato delle guide del popolo:

«I pastori sono diventati insensati,
non hanno ricercato il Signore;
per questo motivo è disperso
tutto il loro gregge» (Ger 10,21).

Ora, però, dato che la situazione
si e fatta più drammatica,
il Signore ricorre anche alle minacce:
“Guai a voi! Vi chiederò conto
delle vostre azioni” (vv. 1-2).

Subito dopo questa sentenza
di condanna contro i capi,
Geremia si rivolge al popolo scoraggiato,
senza guida e cerca di rianimarlo.

Un motivo di speranza c’è:
Israele non appartiene a nessun re umano,
anche se i sovrani indegni
l’hanno fatta da padroni.

Il gregge è di Dio.
Egli si prenderà personalmente cura
delle sue pecore
e le ricondurrà nella loro terra,
nei pascoli dai quali sono state strappate
con la violenza (vv. 3-4).

Al fine di consolare Israele, Geremia
non si limita soltanto al futuro immediato,
ma annuncia anche ciò che il Signore farà
in tempi ancora più lontani:

susciterà nella famiglia di Davide
un germoglio giusto,
un re saggio che eserciterà il diritto
e la giustizia su tutta la terra (vv. 5-6).

Geremia spera, verosimilmente,
nella provvidenziale comparsa
di un nuovo sovrano,
capace di riportare il regno
allo splendore che aveva
al tempo di Davide e Salomone.

Ne annuncia anche il nome.
Si chiamerà Signore-nostra giustizia,
in ebraico Ja Sidqénu,
un’evidente allusione a Sidqíja,
Sedecia, l’inetto sovrano in carica
che non ha garantito la giustizia,
né protetto il suo popolo.

La profezia si è adempiuta davvero,
ma non secondo le aspettative umane;
Dio ha superato del tutto ogni attesa.

Il pastore promesso, in effetti,
non ha restaurato un regno
di questo mondo,
né ha concesso la prosperità
soltanto a una nazione
e neppure ha assoggettato gli uomini
con la forza delle armi.

Il pastore, il figlio di Davide promesso,
infatti, adesso lo possiamo certamente
identificare: è Gesù di Nazaret.

È lui, senza dubbio, lo Ja Sidqénu,
il Signor nostra giustizia,
perché ha dato inizio
a un regno di pace e giustizia,
non certo imponendosi con la forza delle armi,
ma cambiando i cuori.

Il suo regno,
apparentemente senza futuro
perché sprovvisto di quei supporti
in cui gli uomini ripongono
le speranze di successo,
è invece destinato a estendersi
su tutta la terra e a durare per sempre.

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Trasferiamo adesso questo oracolo
di Geremia ai nostri giorni.

Interessante il gioco di parole
– tutt’altro che divertente, però –
cui ricorre Geremia al fine di denunciare
le inadempienze dei pastori:
poiché «non vi siete occupati delle pecore»;
Dio allora «si occuperà» di voi
e delle vostre malefatte.

Il verbo ebraico «si occuperà»
significa, letteralmente,
far conto, rendere conto.

Lasciamo perdere
le colpe specifiche dei capi:
interesse personale,
sfruttamento del gregge,
volontà di potenza,
abusi di vario genere,
defezione al momento del pericolo…

Resta però una colpa fondamentale:
trascurare le persone.
È un rischio sempre ricorrente,
sempre attuale.

Ci si occupa e preoccupa, in effetti,
di tante cose – a causa del bene del gregge,
almeno nelle intenzioni –
ma si omette contemporaneamente
l’occupazione principale:
cioè l’attenzione alle singole persone.

Un ministero essenziale
è certo quello dell’attenzione,
e un dovere primario
è sicuramente quello di «farsi trovare».

Troppi pastori, attualmente,
risultano perennemente indaffarati,
affannati, perfino esagitati,
“presi” da una molteplicità di compiti,
strangolati da mille impegni.

A causa di tutto ciò,
non riescono a dare alle loro comunità
la cosa indispensabile: ossia se stessi.

Occupati in svariate attività pastorali,
ma soprattutto indisponibili
per quell’occupazione
assai costosa che consiste
nel “dare tempo” agli altri, ascoltarli,
interessarsi ai problemi
e alle vicende dei singoli.

A furia di lavorare per il gregge,
si finisce col perdere del tutto
di vista le pecore.

Non viene il dubbio che, in certi casi,
il lavoro più importante
possa essere precisamente quello
di «perdere tempo»?

Foto: Il profeta Geremia,
decorazione musiva parietale,
sec. VI (540-547),
Basilica di San Vitale, Ravenna /
bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it

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