Popoli

Popoli – Poveri ma liberi

Ci sono popoli
che rientrano tra gli “ultimi” del mondo
ma sanno vivere il presente con pienezza.
Uno sguardo da conservare

Popoli – Qualche decennio fa,
era il 1999,
tre coraggiosi antropologi,
Sophie Day, Evthymios Papataxiarchis, Michael Stewart,
editarono un libro dal titolo particolare:
Gigli del campo, gente marginale che vive per il presente.

Ovviamente si riferivano,
in assoluta laicità,
al passo di Matteo 6,28-29.31.34:

«Osservate come crescono i gigli del campo:
non lavorano e non filano.
Eppure io vi dico
che neanche Salomone,
con tutta la sua gloria,
vestiva come uno di loro […]

Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo?
Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? […]
Non affannatevi dunque per il domani,
perché il domani avrà già le sue inquietudini.
A ciascun giorno basta la sua pena».

Nel libro sono raccolti esaurientemente diversi casi,
dai Rom ungheresi ai Vezo del Madagascar;
ma anche dagli intoccabili nel Sud dell’India
alle prostitute londinesi, e inoltre dai giocatori di carte
in un paese della Grecia Egea
ai caboclos delle pianure brasiliane.

Tutti questi gruppi umani sono accomunati
da una situazione oggettiva di povertà e marginalità
ma anche da un atteggiamento verso il presente
che sfugge al loro essere definiti solo come individui
negli scalini ultimi della società.

C’è inoltre chi guadagna un salario con un lavoro a cottimo
e lo spende tutto perché è convinto
che il lavoro salariato sia qualcosa di diabolico,
c’è poi chi nonostante le difficoltà dell’andare avanti
prende comunque possesso nella propria quotidianità
di una zona di godimento del presente in quanto tale.

Popoli
India Gujarat, un gruppo di famiglie Rabari Vagadiya in cammino nel distretto di Kutch, ai confini del Pakistan / parallelozero.com

Ad esempio i Vezo, che sono
una popolazione nomade del mare in Madagascar,
studiata da una grande antropologa italiana, Rita Astuti,
sono orgogliosi di non essere come i popoli vicini,
preoccupati anzitutto di accumulare,
e hanno scelto invece di nomadizzare
al fine di essere indipendenti.

È indubbiamente una strategia che è stata studiata
da un altro grande antropologo e storico, James Scott,
tra i popoli della fascia settentrionale
del sud-est asiatico, denominata Zomia
(a Nord di Birmania e India).

Sono riusciti per secoli infatti
a sfuggire a ogni Stato-nazione,
ma anche a ogni inquadramento e tassazione
e soprattutto al bisogno di “avere un capo”.

Questo vivere nel presente, nonostante
l’uso ideologico che se ne è fatto – ossia
con una pericolosa e interessata mitizzazione
della povertà atta tuttavia a lasciare i poveri dove sono –
corrisponde però a quello che si può constatare di persona
viaggiando in Paesi in cui la vita quotidiana nondimeno
è considerata il centro del senso individuale e collettivo.

L’ho sperimentato di persona dapprima
in Vietnam alla fine del secolo scorso,
poi in Gujarat un decennio fa,
e infine nel mondo indigeno
delle Ande recentemente.

Altopiani Centrali, Vietnam 2013 Interno di una tipica casa Montagnard / witnessimage.com

E senza voler essere antropologi,
l’impressione che ci siano posti
dove la gente vive certo il presente
molto più che “i progetti per il futuro”
è ancora a portata di mano.

Ad esempio i giocatori di carte
di alcuni paesi dell’Egeo
passano la sera a rinsaldare
i propri legami di amicizia e vicinato,
giocandosi i pochi soldi che hanno,

non differentemente dal sistema di visite,
reciprocità e gossip che sostanziano molti mondi
del Sud Italia e del Nord Africa.

Questo attaccamento al presente è considerato
soprattutto dagli economisti e dai developers
la ragione dell’arretratezza di alcuni mondi,
e dal loro punto di vista hanno del tutto ragione.

Tuttavia è soprattutto questo pensare al presente
che consente ad alcuni gruppi umani di viverlo,
sapendo che le promesse che vengono da fuori
molto spesso peggiorano solo le cose.

Popoli
Altopiani Centrali, Vietnam 2013. Casa tipica Montagnard. È dalla fine della Guerra del Vietnam (1975) che la minoranza cristiana dei Montagnard viene pesantemente perseguitata e discriminata dal governo comunista di Ho Chi Minh City / witnessimage.com

È infatti l’esperienza tragica
di decenni di un certo modo di fare cooperazione
e offrire aiuti internazionali.

Perfino quando si tratta di situazioni
di emergenza e di violenza
è solo il tessuto della ricostituita quotidianità
che salva le persone,

come racconta Veena Das,
un’antropologa che lavora negli slums di Dehli,
autrice di un magnifico testo, Life and words:
Violence and the Descent into the Ordinary
(“Vita e parole, violenza e discesa nell’ordinario”).

È effettivamente la riscoperta
di quello che Stanley Cavell
chiama, citando Wittgenstein, l’“ordinario”,
le “forme di vita” che sostanziano il presente
e che non sono perciò riducibili
a classificazioni di posizione sociale,
reddito, identità, religione e credenze.

Il presente in effetti è quella zona
dove ci si gioca la propria vita
nel faccia a faccia con gli altri.

Tutto questo tuttavia non ci libera
dalla necessità di migliorare il mondo
e di denunciarne le terribili ingiustizie,
ma sovverte l’idea stessa
che abbiamo di “sussistenza”.

In buona parte del pianeta
le persone non vivono certamente
per investire in borsa o nell’immobiliare,
ma per avere una misura sufficiente di “sussistenza”
che consenta loro di continuare a essere vive
nel tessuto di reciprocità in cui si trovano.

Livelihood è la definizione
che un economista rivoluzionario come Karl Polanyi
ha dato all’idea di sussistenza.

Il diritto cioè ad avere un orto con cui sfamarsi,
di costruirsi la propria casa
con i materiali locali e con l’aiuto dei vicini,
di essere accuditi e curati dai propri cari, di poter ricevere
e trasmettere la propria cultura fatta di storie, rituali e feste.

Un diritto tuttavia
che viene sempre più negato ai popoli indigeni
e distrutto da tutte le emigrazioni
per cause naturali e politiche.

Lo sradicamento è indubbiamente
un attentato alla possibilità
di vivere il proprio presente dignitosamente.
Anche se gli emigrati
sono capaci di riprodurre questo presente,
pure nelle situazioni di emergenza in cui arrivano.

Ovviamente è molto pericoloso
pensare che questo rapporto con il presente
e la “sussistenza” sia in sé un “valore”,
essendo spesso condizionato
dall’impossibilità di poter scegliere il proprio futuro.

E c’è stato infatti un uso spaventoso
dell’idea di una “cultura della povertà”
che ha portato alla “guerra contro la povertà”
di molte istituzioni occidentali,
rivelatasi poi una guerra “contro i poveri”.

Dall’altro lato è un nuovo concetto di indigenità
che sostanzia l’idea di un diritto
al presente e alla sussistenza
che è ben diverso dall’idea della mera sopravvivenza.

È precisamente quello su cui in questi giorni
si stanno battendo le federazioni indigene in Ecuador
contro un presidente banchiere
che vuole vendere il paese agli estrattivisti
e al Fondo Monetario Internazionale.

I popoli indigeni,
in senso lato sono tutti coloro
che non solo rivendicano l’importanza
di un rapporto diretto con le risorse,
ma che anche privilegiano la reciprocità
sulla competizione e l’accumulazione.

Ad esempio, sono stati riconosciuti
come popoli indigeni in Colombia
i discendenti delle popolazioni africane
arrivate qui con gli spagnoli.

E oggi c’è per di più un’alleanza forte
tra le compagini indigene e il mondo afroamericano,
al punto tale che sono entrambi
nel mirino dei narcos e dei paramilitari.

Nell’insieme è anche grazie a una rivoluzione
nello sguardo antropologico
che oggi possiamo osservare le società
in un’ottica che non è soltanto
quella di una lettura riduzionista,
per quanto di classe.

Le società non sono soltanto unite “contro qualcosa”,
ma sono un tessuto fitto e intricato di legami e scambi
che rendono possibile un godimento del quotidiano,
una relazione con il presente
che non sia solo definita dall’essere vittime
di un sistema ingiusto.

Franco La Cecla (antropolo), «Poveri ma liberi», in
“Luoghi dell’Infinito”, gennaio 2022, n. 268, pp. 34-36.

Foto: India – Gujarat, Donne della popolazione nomade
Rabari Vagadiya portano l’acqua / parallelozero.com

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