Merton

Merton – Profezia e contemplazione nella poesia di Merton
Nuova edizione delle liriche del poeta cistercense

Merton – Innumerevoli lettori
conoscono Thomas Merton
come fecondo autore
di opere mistico-letterarie,

dalla celebre La montagna delle sette balze,
il lavoro autobiografico
che divenne presto il best-seller
dell’America e altrove, a Semi
di contemplazione,
a Nessun uomo è un’isola,

fino a tutte le altre composizioni
accolte universalmente
con il parere favorevole della critica.

In Italia il primo contatto
con la sua raccolta poetica
risale a parecchi anni fa,

quando Augusto Guidi,
su suggerimento di D. Giuseppe De Luca,
stampa una piccola antologia
per la collana dei «Fuochi»
della Casa Editrice Morcelliana di Brescia.

In seguito, nel 1962,
la Garzanti pubblica un libro: Poesie,
che contribuisce a definire
con più cospicua esattezza
il mondo lirico del Merton,
sottolineandone l’intreccio
fra il registro discorsivo e quello meditativo.

Merton – La forza del silenzio

Non ci meraviglia dunque il fatto
che anche quest’anno
siano state riproposte al pubblico
l’immagine
e le rime dell’autore cistercense.

Ossia di questo asceta,
che dalla vena poetica
riceve tali stimoli
da pervadere di un incredibile
e inquietante candore ogni verso,
fino ad apparire come «l’artista ingenuo».

Precisamente come lo stereo
di una primigenia canzone,
capace di vincere il dolore e la morte
(«Tutti i pezzi del mosaico, terra, /
si alzano e volano via come uccelli»).

Reagisce e sconfigge l’inganno
con la forza del silenzio,
che, per dirla meglio con Robert Speaight,
giustifica la qualità di rime,
per la verità non emesse solo
«come un monito da Gethsemani»,

ma più concretamente,
quale delicato momento
fiammeggiante di gioia.

Non a caso il francese Alain Bosquet,
critico assai preparato e sottile,
pone nella sua raccolta:
Trente-cinq jeunes poètes américains,
alcuni brani
fra i più significativi del Merton,

contribuendo così anch’egli a inserirlo
nella schiera dei «poeti solitari,
dediti al pensiero e alla contemplazione».

Merton – Autentico profeta

Con uguale rettitudine Romeo Lucchese
situa invece il Merton tra gli autentici profeti.

Non solo nel senso più lato,
volto a scoprire gli incubi
e i fenomeni dell’essere,
caratterizzato da questa nostra epoca
con i suoi pregi e i suoi vizi, con le virtù
e gli odi, con la violenza e desideri
propri dell’abbandono e della riscossa.

A tal proposito peraltro operano tutti i poeti
del Novecento italiano, anche coloro,
come Gabriele D’Annunzio
(«Tutta la cenere è seme, / tutti gli sterpi
son germogli, /tutto il deserto è primavera»),

il quale per la verità
non sembra disconoscere del tutto
il lato positivo della vita.

Inoltre l’ironia, che con assiduità
s’incontra nelle raccolte di altri autori
(nei crepuscolari, per esempio),

pare un connotato frequentemente inconscio
di una profezia, che allo stesso modo
dei grandi modelli biblici,
annunciano «sia pure oscuramente
e inconsapevolmente, futuri avvenimenti storici».

L’espressione di Guido Sommavilla
si attarda poi a spiegare le ragioni più assidue,
dimostrando come nel secolo scorso
i grandi poeti presagirono
l’imminente «corrosione della lingua,
della sua struttura e dei suoi significati».

Ma la poesia di Thomas Merton
è profezia stretta ed elevata
perché sente il dramma religioso del tempo,
accantonato in quel disgustoso materialismo,
oscuro operatore della guerra
certamente dannosa alla civiltà e alla persona,

come emerge in alcuni versi di
Immagini per un’Apocalisse
(«Nelle rovine di New York», per esempio)
e negli altri di Un uomo nel mare diviso,
quando rifacendosi alla Passione di Cristo,
l’autore dice espressamente:

«Il grido che lacerò il velo del tempio, /
e spaccò la terra fino all’inferno /
ed echeggiò per l’universo, /
risuona nei bombardamenti, fino a noi».

Quindi prosegue con audace
e severa condanna ed estremo realismo:
«Non v’è orecchio che non abbia udito /
il grido senza fine di Dio assassinato».

Preghiera e contemplazione

Tanta poesia di Merton, infatti,
gravita intorno a queste sentenze,
anche quando si lascia trasportare
dalla dolcezza e da una quiete,
che non hanno nulla da spartire
con l’inerzia e l’indifferenza.

Al contrario,
il suo impegno resta quello di un uomo
che sa la banalità del vuoto della parola;
quindi insiste in una operazione,
dove, sia lo spunto ascetico
che il dato umano
agiscono nell’usuale incedere della vita:

«Camminate nei boschi e testimoniate»,
sussurra perciò l’autore, «voi,
i migliori fra questi poveri fanciulli».

È quindi naturale che simili accenti
non facciano parte di una recita
da effettuarsi nel palcoscenico
di una più o meno felice esistenza.

Assumono piuttosto
la fisionomia indispensabile
di un’attività quotidiana,
in cui preghiera e contemplazione
prendono lo stesso senso
della testimonianza e della missione,

secondo quanto si legge
ne «Il rimpianto»,
quando l’autore intona chiaramente:

«E le anatre spiccano il volo,
improvvise come il vento, /
fuori dal turbinoso fiume, /
lentamente veniamo,
senza canna e senza fucile /
a camminare tra le gabbie
percosse degli alberi».

Peraltro
fare poesia per Thomas Merton
significa maturare
il proprio talento naturale
e la sua insolita vocazione.

Lo dichiara egli stesso ne
La montagna delle sette balze,
nel mentre parla dell’ombra dello scrittore
che lo segue nel monastero
e lo perseguita fino a che
non gli verrà accordato il permesso
di comporre poesie.

Nasce così un’accurata impalcatura poetica
che respinge e si distacca
da un mondo aspro e incompleto,
ma osservato sempre in uno spazio,
al quale in qualche modo
l’uomo appartiene.

Talora, forse,
in maniera appesantita e greve;
o altrimenti con il temperamento arioso
e libero del poeta,
che ritirandosi nel chiostro,
non fugge dalla terra,

ma a essa si avvicina,
vivacizzandola con la misteriosa
e ridente spiritualità del mistico.

Una coscienza interiore e letteraria,
la sua, che non si media del tutto
dalle pagine di Eliot e di Rimbaud,
e neppure risente soltanto delle righe
di un Paul Claudel o di un Robinson Jéffers
e di Archibald Mac Leish.

Si lega piuttosto ad alcuni passi biblici,
tanto più evidenti,
da escludere, secondo l’opinione di alcuni,
«il realizzarsi di una metrica personale».

È la ragione per cui il Merton,
senza scostarsi da una radicata concretezza,
non osteggia le intuizioni e le inventive
familiari ai beni e alle purezze della natura
e del suo colloquiale sapore.

In effetti qualche descrizione del giorno
e del paesaggio e altre vibrazioni
care all’essenza degli oggetti e del tempo
interpretano lo stralcio di un universo,
dove il silenzio e la contemplazione
depongono qui la scheggia divina
in uno scanno più vicino e intimo.

Siamo verosimilmente di fronte
al raggio di una luce
che lo stesso poeta indica «ordinaria»,
poiché non possiede nulla di strano,
se non una fede approfondita
e ridotta a indubbia evidenza.

In realtà i versi di Merton penetrano,
fra metafore e figure,
nella diamantina zona di una trasparenza
lontana dalle istanze dei sensi,
ma inserita nell’orizzonte fatato
e stupendo della purificazione e dell’amore.

Immette nel circonfuso fascino
della trascendenza e della grazia,
quale effetto di una preghiera spontanea,
sperimentata ora,
più che come nuda invocazione,
come «anticipazione, ricca di speranza
e di desiderio», confessa espressamente l’autore,

così da indovinare l’avvenire
come in un sogno:
«Poi un’altra voce ancora,
spegne tutte le fiammate in un soffio»,
canta il Merton.

Difesa della cultura

Tale affermazione,
se da una parte lo registra
nella condizione comune ai poeti,
che è quella di difendere la cultura
e la dignità della persona,

dall’altra egli svolge l’impegno
in una linea del tutto singolare,
privilegiando il messaggio evangelico
come l’unico elemento,
inneggiante ai vantaggi
e al dominio dello spirito.

Come lo strumento di una poesia
tesa «a sollevare»,
per usare una terminologia di Kafka,
«le cose sul piano della verità,
della purezza e della durata».

Cura pertanto l’esercizio
della libertà dei figli di Dio
e dell’amore disinteressato,

tenendo conto che ogni sano principio
si appoggia alla benevolenza divina
e si stacca dalla menzogna
per riflettersi nell’anima dell’uomo,
ricreata nella redenzione di Cristo.

Qui sta il significato
della vita contemplativa
e del senso della legge.

Allora si comprende
chi siamo noi e chi è questo Dio,
alla fine ritrovato
nella nostra natura purificata,
come sorgente di bontà e di misericordia.

«E dal fondo della mia cantina,
Amore, più forte del tuono, /
apre un paradiso di aria pura»,
conclude sinteticamente il poeta
e su tale modulo s’adagia
la poesia di Thomas Merton.

Essa viaggia con gli anni
«a testa bassa,
sotto i rami inclinati,
come una foglia»,

ma con nello spirito
la consapevolezza di bruciare
«la linfa della mia casa di pino /
in lode del sole oceanico».

G. Battista Gandolfo, «Profezia e contemplazione
nella poesia di Merton. Nuova edizione
delle liriche del poeta cistercense», in
“L’Osservatore Romano”, 18 settembre 1986, p. 3.

Foto: Thomas Merton / ilmantellodellagiustizia.it

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