Nàaman

Nàaman – 2 Re 5,14-17 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

 

L’antefatto

Nàaman – Siamo nella seconda metà del IX secolo a.C.
Damasco ha esteso il suo dominio
sulla maggior parte della Siria e della Palestina
e il personaggio più in vista e stimato del regno
è Nàaman, il cui nome (almeno in ebraico)
significa “affascinante”.

Non conosciamo la sua età,
però è certamente una persona adulta,
comandante in capo dell’esercito del re di Aram = Siria,
Ben-Hadad II, all’epoca di Ioram, re d’Israele
(852-841 a.C).

Nàaman sarebbe l’uomo più felice e fortunato,
se non ci fosse un ma: è affetto dalla lebbra.

Un giorno, una ragazzina d’Israele,
rapita durante una razzia
e passata poi al servizio della moglie di Nàaman
rivela alla sua signora che nella propria terra
un profeta opera guarigioni straordinarie.
È Eliseo, il discepolo di Elia.

La moglie racconta a Nàaman la confidenza
della ragazzina israelita,
e Nàaman, a sua volta, ne informa Ben-Hadad II.

Il re concede a Nàaman di recarsi in Palestina
e gli affida una lettera personale per il re d’Israele,
in cui è contenuta
la richiesta della guarigione di Nàaman dalla lebbra.

Nàaman parte, dopo aver preso con sé
tre quintali d’argento (dieci talenti d’argento : v. 5),
seimila monete d’oro e dieci cambi di vestiti.

Ma il re d’Israele interpreta la lettera
come un pretesto per nuocergli.
Eliseo, tuttavia, lo rassicura:
si occuperà personalmente dell’ufficiale arameo.

Nàaman allora va a trovarlo,
ma quando sta per giungere alla casa del profeta,
gli viene incontro un servo di Eliseo
che gli ingiunge di andare a lavarsi sette volte
nell’acqua del fiume Giordano.

Nàaman si indigna. Si aspettava da Eliseo
il compimento di qualche rito,
un’invocazione al suo Dio,
l’imposizione delle mani.
Niente di tutto questo.
Eliseo non si è neppure degnato
di venirlo a salutare.

Irato, sta per allontanarsi
quando i suoi servi gli si avvicinano
e gli fanno un ragionamento elementare:
se il profeta ti avesse ordinato qualcosa difficile,
certo l’avresti fatto.
Perché allora non mettere in pratica
un comando tanto semplice?

Il nostro testo

A questo punto della storia
si inserisce la prima lettura di oggi

Nàaman scende nel Giordano,
si lava sette volte
e la sua carne diviene come quella di un giovinetto;
è guarito (v. 14).

Ritorna poi da Eliseo con tutto il suo seguito
ed esclama: «Ora sono convinto
che su tutta la terra non c’è che il Dio d’Israele.
Ora accetta un regalo dal tuo servo» (v. 15).

Ma Eliseo rifiuta il regalo
perché non vuole che sorgano equivoci.
La guarigione, infatti,
non deve essere attribuita a lui,
ma al Signore (v. 16).

Nàaman capisce ed esclama:
«Poiché non vuoi, acconsenti che…».
Chiede il permesso di portare con sé
un po’ di “terra santa” per costruire,
nella sua città, un altare al Signore (v. 17).

Commento

L’antefatto

Il racconto si apre con l’informazione
che il Signore, il Dio di Israele,
aveva concesso per mezzo del generale Nàaman
la vittoria agli Aramei,
nemici giurati di Israele (2 Re 5,1).

Il narratore biblico fa, dunque,
un’affermazione molto forte:
il Dio d’Israele è un Dio libero,
che non accetta di essere posseduto
da alcuna comunità umana.

Molti secoli dopo Pietro farà la stessa constatazione:
«In verità sto rendendomi conto
che Dio non fa preferenza di persone,
ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia,
a qualunque nazione appartenga» (At 10,35).

Tuttavia, questo “strumento di Dio”,
questa persona «autorevole presso il suo signore
e stimato» era affetto da lebbra (v. 1).

Il termine ṣāraʿat è utilizzato nei testi biblici
al fine di indicare una serie di malattie della pelle
più o meno pericolose e contagiose,
guaribili e inguaribili.

Il libro del Levitico affronta a lungo
il tema della lebbra nei capitoli 13-14,
ponendo i lebbrosi tra le categorie impure:
dovevano evitare il contatto con le altre persone,
ed era loro severamente proibito
di accostarsi alla città santa e al suo tempio.

Secondo la legge mosaica, i sacerdoti
erano responsabili di diagnosticare la lebbra –
ordinando la separazione del malato
dal mondo dei sani (Lv 13) –
e di riconoscere l’avvenuta guarigione,
reintroducendolo nel mondo dei vivi
con una serie di atti liturgici (Lv 14,3-20).

La guarigione dalla lebbra
era paragonata ad una risurrezione dai morti,
come evidenzia bene la reazione del re d’Israele
alla richiesta del sovrano di Aram:
«Sono forse Dio per dare la morte o la vita,
perché costui mi ordini di liberare
un uomo dalla sua lebbra?» (2 Re 5,7).

Il testo

Nàaman che già conosceva diverse divinità
come Rimmon, dio di Damasco
ma anche il Dio di Israele, per sentito dire,
al termine della sua avventura
scopre con certezza che
«non esiste Dio in tutta la terra se non in Israele».

Egli cioè si accorge
che il Dio di Israele non è uno dei tanti dei,
bensì l’unico vero Dio.
Scopre cioè il cuore della fede ebraica:
«il Signore è uno solo» (Dt 6,4).

Il Dio di Israele si occupa di tutti, anche di coloro
che a causa di origine e stile di vita gli sono lontani,
come è appunto Nàaman che appartiene ad un popolo
che ha compiuto razzie contro gli ebrei.

Il Dio incontrato da Nàaman
si dimostra poi interessato alla sua guarigione globale.

La lebbra è, infatti, una malattia del corpo
che intacca però tutte le relazioni costitutive dell’uomo:
la relazione con Dio
perché la lebbra è vissuta come una maledizione divina,
con gli uomini perché essi allontanano il lebbroso
e con se stessi perché ci si sente morire in tutti i sensi.

Dio opera la guarigione gratuitamente,
non vuole nulla in cambio da Nàaman.
Non servono a nulla le raccomandazioni dei potenti
(la lettera del re di Aram…)
o il denaro e i beni che Nàaman possedeva.

Il nostro testo evidenzia poi
il cammino esteriore ed interiore
che Nàaman ha dovuto compiere
al fine di incontrare il Dio di Israele.

Va considerato che il Signore non appare
né “magicamente” né “spettacolarmente” a Nàaman,
ma si rende presente nella sua vita
tramite inaspettati mediatori:

una giovinetta serva ebrea che lancia
una provocatoria e rischiosa (per lei) proposta;
l’indicazione data dal servo di Eliseo;
il ragionamento dei suoi stessi servitori…

È quindi un Dio che non disdegna
la collaborazione degli uomini,
prediligendo tra questi precisamente
quelle categorie che il “buon senso comune” rifiuta.

La grande fatica di Nàaman
è stata quella di abbandonare i propri schemi,
le proprie immagini di Dio e della guarigione
ancora fortemente influenzati
da elementi magici e di scambio:

«Ecco io pensavo… uscirà…
invocherà il suo Dio… toccherà con la mano»

per accogliere il modo di guarire
e l’identità non immaginata di questo Dio:
«Ora so che non c’è altro Dio se non in Israele».

Proseguimento oltre il nostro testo

Il nostro testo termina qui,
ma il racconto non è finito
e credo valga la pena ricordare
come si è concluso il dialogo tra Eliseo e Nàaman.
È contenuto nei vv. 18-19,
successivi al nostro testo.

Quest’ultimo – come si è dimostrato –
ha preso la decisione di adorare il Signore
tuttavia il suo cammino di fede è solo agli inizi.
Si rende subito conto che ci sono delle difficoltà.
Vuole esporle a Eliseo,
che già considera la sua guida spirituale.

Nella mia patria – dice – ho l’incombenza
di accompagnare il re durante le cerimonie pagane
nel tempio di Rimmon.
Quando si inginocchia davanti alla statua del dio,
il sovrano si appoggia al mio braccio
e anch’io mi devo prostrare
In pratica, compirò un gesto di idolatria.

Nàaman non pretende che Eliseo approvi la sua azione,
chiede solo un po’ di comprensione per la sua debolezza.

Cosa rispondergli? Come mettere d’accordo
la coerenza con i principi morali
e la misericordia verso il peccatore?

La soluzione più facile per Eliseo
sarebbe quella di trincerarsi dietro
le disposizioni giuridiche,
applicare freddamente le norme
e – se occorre – minacciare
chi si permette di ipotizzare
una vita di compromessi e di incoerenze.

Ma Eliseo, che è un vero pastore di anime,
non si comporta in questo modo.
Conosce i principi,
ma si di trovarsi di fronte a un uomo in difficoltà
dal quale sarebbe insensato
pretendere immediatamente la perfezione.

«Va in pace», gli dice.
E possiamo immaginare
che abbia accompagnato le sue parole
con un sorriso, quel sorriso amico
di chi ha capito l’angoscia e il dramma spirituale
che gli sono stato confidati.

Foto: Cornelis Engebrechtsz, “Il profeta Eliseo
cura il comandante siriani Nàama
dalla lebbra nel fiume Giordano”,
pala d’altare alata su quercia
nel trittico di Naaman (ca. 1524);
Kunsthistorisches Museum, Vienna /
meisterdrucke.it

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