Mosè

Mosè – Es 3,1-8a.13-15 – III Domenica di Quaresima – C

Mosè. Israele ha conosciuto il suo Dio anzitutto come liberatore.
Solo in seguito ha scoperto che Egli è anche padre,
madre, sposo, re, pastore, guida, alleato…
La I lettura di oggi racconta come è cominciata
questa rivelazione del Signore al suo popolo.

L’antefatto

Mosè, cresciuto alla corte del Faraone,
prende coscienza della sua appartenenza al popolo ebraico,
oppresso dagli Egiziani, e quindi vive con sofferenza
il dover assistere alla violenza, all’ingiustizia
ed alla sopraffazione della classe dirigente a cui egli stesso appartiene.

Mentre è ancora famoso in autorevolezza,
perché appartenente alla corte,
si intromette in un episodio di lavoro
dove il sovrintendente egiziano maltratta uno schiavo ebreo.
Mosè, che ne prende le difese, arriva ad uccidere l’aggressore.

Ma quando, il giorno dopo, capisce che l’omicidio è stato scoperto
e lo si incolpa, ormai, quasi pubblicamente,
ha paura e fugge mettendosi in salvo nel paese di Madian (Es 2,11-15).

Un giorno Mosè è seduto presso un pozzo,
giungono delle ragazze per abbeverare il gregge del padre,
il sacerdote di Madian, e alcuni pastori le scacciano.
Non tollera il sopruso, balza in piedi, fa a botte con i ribaldi
e aiuta le pastorelle ad abbeverare il bestiame.

Tornate dal loro padre, questi chiede loro
come mai siano ritornate così presto.
«Un Egiziano ci ha liberate dalle mani dei pastori – rispondono –
è stato lui che ha attinto per noi e ha dato da bere al gregge».

Quegli chiede alle figlie: «Dov’è?
Perché avete lasciato là quell’uomo?
Chiamatelo a mangiare il nostro cibo».

Mosè accetta l’ospitalità del sacerdote di Madian,
che gli dà in moglie la propria figlia Zippora.
Ella gli partorisce un figlio ed egli lo chiama Gherson,
perché dice: «Sono un emigrato in terra straniera» (Es 2,15-22).

Nel frattempo, gli israeliti gemono per la loro schiavitù,
alzano grida di lamento e il loro grido sale a Dio.
Allora Dio ascolta il loro lamento,
si ricorda della sua alleanza con Abramo e Giacobbe (Es 2,23-24).

La prima lettura

A questo punto si inserisce la prima lettura di oggi,
una delle pagine più importanti e conosciute dell’Antico Testamento,
e può essere chiamata la madre di tutte le vocazioni:
nella prima parte si racconta la vocazione di Mosè (Es 3,1-6),
nella seconda la missione (Es 3,7-8.13-15).

La prima parte inizia con il presentare Mosè:
un pastore che sta pascolando un gregge,
nemmeno suo ma del suocero, sradicato dal suo popolo,
straniero a quella terra dove non conta nulla,
ex ricercato dal faraone.

Senza ombra di dubbio non sono per niente buone
le credenziali che Mosè può presentare.

Questi conduce il gregge oltre il deserto
e arriva al monte di Dio, l’Oreb, che la tradizione
colloca nella parte meridionale della penisola del Sinai.

Mosè è in questo luogo deserto,
e “deserto” significa luogo di silenzio, di aridità.
“Oreb” vuol dire: siccità, macerie, devastazione.
Ed è qui che Dio va a cercare quest’uomo.

All’improvviso Mosè vede un roveto che brucia senza consumarsi.
Si avvicina e sente la voce di Dio che,
dopo averlo invitato a togliersi i calzari, gli dice:
«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto
e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti;
conosco le sue sofferenze e sono sceso per liberarlo» (Es 3,2-8a).

Diciamo subito che l’immagine del roveto ardente
potrebbe essere suggerita all’autore biblico
da un fenomeno curioso che avviene nel deserto:
dal dictamus albus – un arbusto alto un metro –
defluiscono oli essenziali
che, nelle giornate molto calde, si incendiano.

Commento della chiamata-vocazione di Mosè

«L’angelo del Signore gli apparve
in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto» (v. 2).
L’espressione “angelo del Signore” significa “il Signore” stesso,
confermata dal v. 4 che dice: «Il Signore vide».

Il Signore si presenta, dunque, come fuoco,
quell’elemento che non si tocca,
che ha una potenza di trasformazione,
fonde i metalli, purifica, illumina.
Nella Bibbia, infatti, il fuoco è simbolo della presenza di Dio.

Noi osserviamo la scena attraverso gli occhi di Mosè,
che guarda con stupore quello che sta succedendo:
un roveto che arde e non si consuma.
Non immagina neanche cosa vuol dire,
è attirato dalla curiosità ma non sa che lì
si nasconde la presenza di Dio, non ne è consapevole.

La tradizione ebraica ha molto riflettuto sul fatto
che Dio si sia rivelato a Mosè in mezzo ad un roveto.
Rabbini e studiosi hanno proposto letture diverse.
Ne ricordo quelle che risultano più plausibili.

Secondo una interpretazione il roveto è un albero di dolori,
pieno di spine, e non si consuma perché il dolore in Israele sarà un dolore eterno.
Ma Dio non vuole che Israele, il suo popolo, si consumi in mezzo ai dolori.

Un’altra lettura: “Ti rendi conto di come partecipo
alle sofferenze d’Israele? – è Dio che parla –
Io ti parlo circondato da spine, come se partecipassi al tuo dolore”.
Secondo questa interpretazione, Dio partecipa,
non è uno che si nasconde, che si tira indietro,
ma partecipa alla sofferenza dell’uomo, fino in fondo.

Secondo un’altra interpretazione rabbinica
il roveto spinoso è il popolo d’Israele
che si ribella continuamente al suo Signore.
Tuttavia, Dio non consuma, non distrugge,
ma avvolge nel suo calore, nella sua luce, nel suo amore,
come il fuoco circonda il roveto.

Dio dice a Mosè: «Togliti i sandali dai piedi,
perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (v. 5).
In questa maniera Dio fa capire chi è a Mosè.

Mosè si accorge che qualcuno, in mezzo al deserto, lo cerca;
fino ad allora nessuno si era interessato di lui.
Pensava di essere un fallito, capace solo di portare al pascolo un gregge di pecore,
e invece si sente chiamato e si sente dire che quella è una terra santa.

Mosè comincia a capire qualcosa di questo Dio.
Non è lui che va a cercare Dio, perché se dovesse andare a cercarlo
lo farebbe in qualche luogo santo, in un santuario;
è Dio, invece, che viene a cercarlo.

Per il cristianesimo il luogo più santo di tutti non è la Terra Santa,
ma è la persona: ogni persona è il luogo più santo che ci sia.
Dio si interessa di un miserabile come Mosè,
di uno che non conta niente, dimenticato da tutti, anche dal suo popolo.

Dio comincia a parlare a Mosè: «Io sono il Dio di tuo padre,
il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (v. 6).
Vuol dire: per sapere chi sono devi guardare come ho agito con i tuoi antenati;
e come mi sono comportato con loro così mi comporto con te.
I patriarchi non erano le persone migliori, non erano persone perbene,
eppure Dio è andato a cercarli, li ha amati,
e come si è servito di Giacobbe, così ora si serve di Mosè.

Davanti a questa rivelazione Mosè si copre il volto.
È interessante che mentre Mosè si copre il volto,
Dio scopre il suo, si fa conoscere un po’ alla volta.
Ci sono otto verbi, e sette si riferiscono a cosa fa Dio
(“ho osservato”, “ho udito”, “conosco”, “sono sceso”…),
l’altro alla sofferenza, al grido del popolo.

Il Dio che si rivela qui non sta sulle nuvole,
come le altre divinità di quel tempo,
ma si interessa delle persone, soprattutto di quelle che non contano niente,
degli stranieri, degli oppressi, dei più miserabili.

Missione di Mosè

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto
e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti;
conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…» (vv.7-8a).

«Sono sceso»: il programma del Signore è di “scendere”
per far salire questo popolo dall’abisso della schiavitù
e per portarlo nella terra di Canaan.

A questo punto, però, scocca un ordine inaspettato
(ed è un peccato che la lettura odierna l’abbia saltato disinvoltamente):
«Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo» (v. 10).

Quando Dio decide di intervenire nella storia degli uomini, manda qualcuno.
Dapprima fa capire: “Ci penso io. È affare mio”.
Ma poi conclude: “Avanti! Tocca a te”.
Sì. Dio vuol avere bisogno degli uomini
Lui è presente nel mondo, se noi non siamo assenti.
Lui è vicino all’uomo, se noi ci facciamo “prossimi”.

Braccato a morte, costretto a scappare dal faraone
e ad allontanarsi dai suoi fratelli che non lo accettavano,
Mosè deve ora tornare dall’uno e dagli altri!

Il Signore fa proprio cose strane, prende Mosè e gli affida il suo progetto.
Mosè non ha nessuna carta in regola per essere coinvolto in questo progetto,
così almeno sembra ai suoi occhi, o agli occhi degli altri,
ma non agli occhi del Signore.

Davanti alla proposta del Signore
cominciano le obiezioni di Mosè, una serie di cinque.

La prima: «Chi sono io per andare dal faraone
e far uscire dall’Egitto gli Israeliti?» (v. 11).
Mosè guarda se stesso e si chiede:
chi sono io per rispondere a questa missione?

Dio risponde: «Io sarò con te» (v. 12). È l’unica cosa che gli dice.
Vuol dire che Mosè non è da solo in questo compito enorme.
Lo sguardo di Mosè si posava sul faraone, cioè sul potere,
sulla forza e sulla propria pochezza;
Dio converte il suo sguardo: non guardare chi sei tu,
non guardare al faraone, guarda chi sono io.

Per la seconda volta Mosè obietta (e qui riprende la prima lettura odierna):
«Ecco, io arrivo dagli israeliti e dico loro:
il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi.
Ma mi diranno: “Come si chiama”?» (v. 13).

Mentre la prima obiezione era su se stesso – chi sono io? –
la seconda è: chi sei tu che mi parli?

«Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!».
E dichiara apertamente: «Questo è il mio nome per sempre;
questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (v. 15).

In realtà il nome con il quale Dio si rivela
– e si identifica – è abbastanza sibillino:
l’ebraico “’ehjè sher ‘ehjè” tradotto con “io sono colui che sono”
contiene due volte il verbo “essere” legato da un pronome relativo.
Il verbo «essere» (‘ehjè) in ebraico è verbo «attivo»;
non indica uno stato, ma una attività.

In altre parole, l’espressione «Io sono colui che sono»
non suggerisce una definizione della Persona di Dio
in termini di “essenza”, ma definisce Dio in termini di presenza operante.
Il nome non dice ciò che Dio è in se stesso,
ma ciò che è per l’uomo, a favore dell’uomo.

È colui che si fa presente per salvare, liberare.
Colui su quale si può contare in ogni circostanza

Dio non può essere conosciuto, può essere visto all’opera,
lo si conosce attraverso quello che compie.
E tutto ciò non fa forse pensare a un “Padre”? A un “Papà”?

In effetti, Gesù rivelerà compiutamente il vero nome di Dio:
«Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini» (Gv 17,6.26): Padre.
«Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Foto: Arnold Friberg, Mosè e il roveto ardente / veritatemincaritate.com

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