Crisi

Crisi – Nella storia tutto si trasforma

Crisi – Dalla peste ai maya,
i modelli catastrofisti
di nascita-crescita-collasso delle civiltà
ignorano che esistono infiniti modi
di superare (o aggirare) le grandi crisi

Come recita un antico adagio,
“non tutto il male vien per nuocere”.

V’è a questo proposito una larga messe di battute,
di aneddoti, di proverbi, di aforismi, di barzellette,
dal nostro Occidente fino alla Cina.

Una disgrazia, certo,
non si augura a nessuno:

tuttavia si può dire
che nell’esperienza di ciascuno di noi
una disgrazia, un disguido seccante,
un contrattempo grave
abbastanza spesso sfociano in complicazioni ulteriori
e in depressioni gravi,

ma talora provocano all’opposto reazioni
straordinariamente vigorose:
infatti stimolano l’energia, inducono a scoprire
insospettate risorse materiali e spirituali.

Così per i popoli, così per la storia.
È ben noto infatti che
dopo guerre magari perdute,
gravi rovesci sociali, cataclismi naturali,

si riesce spesso a fornire
una risposta collettiva di forza straordinaria
che ribalta conseguentemente la situazione di svantaggio
mutandola nel suo contrario.

Allo stesso modo di quando si esce da una grave malattia
con una rinnovata voglia di vivere;
come quando a un inverno rigido e spietato
tien dietro una prorompente,
luminosa e profumata primavera.

Scorrendo infatti i secoli,
modelli storici di questo tipo
si trovano frequentemente:
peccato doversi limitare
ovviamente per ragioni di spazio e di tempo
a una casistica sommaria.

La “leggenda dell’Anno Mille”, ad esempio
nella realtà delle cose del tutto priva di fondamento,
narra come nell’ultima notte
del primo millennio dell’era cristiana
la gente si raccogliesse tremante
attorno ai santuari e alle pievi
aspettando la fine del mondo,

ma all’indomani,
dopo lo spettacolo di un sereno radioso mattino,
tutti tornassero rinfrancati a casa loro
e si dessero con maggior lena a lavorare,
a costruire, a popolare la terra di nuovi nati.

Vero è tuttavia
che soprattutto nel periodo fra IX e XI secolo
(caratterizzato oltretutto
da un surriscaldamento planetario analogo al presente,
a causa della “sinusoide climatica”)

gli annunzi e le profezie
riguardanti l’avvento dell’Anticristo
e l’Apocalisse incombente
si moltiplicarono;

e costituirono un presagio dell’avvento di una nuova
fase climatica e idrogeologica, e una concausa
della rinascita agricola, demografica e quindi
anche economica e politica straordinariamente positiva,
vissuta nel mondo eurasiomediterraneo
dei secoli XI-XIII:

per esempio, l’era dell’arte romanica,
della poesia trobadorica, della conquista
di nuove terre da mettere a coltura,
dei pellegrinaggi e dei commerci,
delle cattedrali e delle università.

La Sacra di San Michele, in Val di Susa, fondata alla fine del X secolo / piemonteitalia.eu

Potremmo andare a lungo avanti di questo passo.
I periodi immediatamente postepidemici
e postbellici sono di solito caratterizzati
dalla liberazione di nuove energie creative,
nel bene e nel male:

ad esempio, a seguito della tempesta
delle travolgenti vittorie di Alessandro Magno,
tutto il mondo antico
dalla Grecia all’India
assisté, senza ombra di dubbio,
a una rinascita prodigiosa.

Ancora: l’impulso positivo offerto a metà Seicento
dal concludersi di una lunga sequenza
di guerre, epidemie e carestie

fu chiaramente alla base del Grand Siècle francese,
della civiltà illuministica, della “prima
Rivoluzione industriale”, delle grandi rivoluzioni
politiche tardosettecentesche,
della civiltà romantica.

Inoltre, tra 1917 e 1925 circa,
la tragedia avviata dai folli eventi dell’estate del 1914
similmente dette luogo a una fase di rivoluzioni,
di controrivoluzioni, di genocidi, di stravolgimenti
dell’assetto del mondo (e nel bel mezzo di ciò
giunse anche l’epidemia “spagnola”)

dalla quale emersero, per esempio,
la novità dell’Unione Sovietica
e della rinascita nazionalista e progressista
in Turchia e in Iran.

Anche la Società delle Nazioni,
fondata il 28 giugno 1919,
diede chiaramente il via a un esperimento
destinato a produrre frutti,
non sempre felici.

Mentre la crisi economica del 1929
fu anche concausa
del radicarsi degli esperimenti totalitari,
a loro volta peraltro replica sociale
al fallimento del liberismo “classico”
vincitore sì sul piano militare
ma al tramonto su quello culturale e politico.

Questi sono ovviamente tutti spunti di riflessione,
magari forse addirittura provocazioni.
Ma, non potendo, per la verità,
esaminare tutto in dettaglio,
contentiamoci di qualche esempio.
E prendiamone in particolare considerazione uno:

quello della sequenza pandemica tre-seicentesca,
autentica incubatrice in Europa della Modernità.

Nel 1932 lo storico Egon Friedell
affermava esplicitamente:
«Il 1348, anno della Peste Nera, rappresenta l’anno
del concepimento dell’uomo nell’età moderna».

Un punto di vista
che ha avuto indubbiamente successo
e che è stato accettato da molti studiosi.

A partire dagli anni Sessanta
del Ventesimo secolo,
si è approfondito il tema
dell’importanza decisiva di quell’epidemia
come cesura epocale
tra medioevo ed età moderna:

si è andata anche creando
una “storiografia della crisi”,
peraltro con punti di vista molto diversi.

La cosiddetta “Morte Nera”,
il terribile flagello che infuriò
in tutto il macrocontinente eurasiatico tra 1346 e 1352,
esplose in modo talmente repentino
che qualcuno ha voluto avvicinarlo
a una catastrofe nucleare,
e andò placandosi nel biennio 1351-1352;

ma lasciò dietro di sé una terribile scia
di conseguenze immediate e remote
e continuò a circolare nella medesima area,
in forma endemica, riproponendosi
con drammatici ritorni periodici del picco epidemico
almeno fino alla pandemia del 1630,
quella descritta dal Manzoni.

In aree ristrette anzi
essa sopravvisse addirittura
anche a tale data,
ripresentandosi crudelmente
in Italia tra 1656 e 1657
e in Inghilterra un decennio più tardi.

È stato calcolato infatti che
tra la pandemia avviatasi nel 1346
e la peste del 1656-1657
il morbo si ripresentò, nella sola Italia,
per ben ventisette volte successive.

Per il Mediterraneo della seconda metà del Cinquecento,
inoltre, Fernand Braudel ha potuto parlare della peste
come di una “struttura del secolo”.

Il fatto che la crisi demografica del Trecento
si sia manifestata attraverso la fame
assai prima che attraverso la peste

ha indotto la maggioranza degli studiosi
a ritenere che la sua causa
stia prima di tutto in un rapporto sfavorevole
tra l’aumento della popolazione
e quello della produzione.

In assenza di una vera e propria
rivoluzione nei metodi agricoli e nelle tecnologie,
il massiccio aumento demografico dei secoli precedenti
era stato reso possibile principalmente
attraverso l’estensione delle superfici coltivate;

ma verso la fine del Duecento
tutte le superfici disponibili
erano state ormai dissodate,
perciò la produzione cessò di aumentare.

La popolazione, per contro,
continuava a crescere:
era quindi inevitabile
che l’alimentazione peggiorasse,

almeno per i ceti più sfavoriti,
i braccianti agricoli
e i subalterni dell’industria tessile,
i cui salari erano mantenuti bassi
proprio dalla crescente offerta di manodopera
legata all’aumento demografico.

Questa popolazione,
denutrita già in condizioni normali,
era destinata a soccombere al primo,
prolungato rialzo dei prezzi;
ed è appunto ciò che accadde
con i cattivi raccolti degli anni 1315-1317.

Il contadino medio
e il lavoratore urbano povero
del tardo Duecento erano,
fisicamente parlando,
il risultato di molte generazioni
nutrite quasi esclusivamente di cereali,

quindi minacciate da gravi carenze di grassi
e di materiale proteico e dotate
di scarse difese fisiologiche.

La precarietà di questo equilibrio
si rivelò drammaticamente
quando, nei primi due decenni del Trecento,
il continente europeo dovette affrontare
una fase di raffreddamento
e di generale peggioramento climatico.

Dopo un lungo arco cronologico
di riscaldamento, culminato nel Duecento,
le calotte polari presero di nuovo a espandersi,
e lunghe annate caratterizzate da piogge e da umidità
si susseguirono sull’Europa,

causando non solo l’infierire di malattie da raffreddamento
che colpivano in modo grave
soprattutto i bambini sotto i cinque anni
e le persone anziane,
ma anche una serie di cattivi raccolti agricoli,
con conseguenti carestie e lievitazione dei prezzi.

Il primo sintomo delle difficoltà
che minacciavano l’Europa
è rappresentato dalla grande carestia
del 1315-1317.

I prezzi dei cereali aumentarono vertiginosamente,
provocando la morte di molte persone
e moltissimo bestiame
per gli effetti della denutrizione e delle malattie
che essa portava con sé:

nella città di Ypres, ad esemio,
che contava 20-25mila abitanti,
morirono in sei mesi,
fra il maggio e il novembre 1316,
quasi tremila persone,
cioè più di un abitante su dieci.

Un’altra grave ondata di carestie
percorse l’Europa
nel corso del quinto decennio del secolo.

Tutto questo lungo processo di destrutturazione
condusse a una stretta congiunturale
dalla quale l’Europa risultò pesantemente provata.

Anche nelle città
i primi segni della crisi
che stava arrivando
si mostrarono ben presto,
anzitutto sotto forma di un ristagno
nella produzione e nello smercio di certi prodotti
(soprattutto quelli tessili)

e nel conseguente stallo dei rapporti
fra la grande moneta d’oro
(strumento dei traffici internazionali)
e le monete d’argento o di metallo più vile
che costituivano il materiale
di ordinario pagamento dei salari.

Fino al 1320 circa,
tale rapporto si era andato qualificando
nel senso di una crescita costante
del valore dell’oro,
segno di una sostanziale buona salute
dei traffici internazionali;

tra 1320 e 1340
questa tendenza si andò invertendo,
il che causò non pochi disagi.

Intanto, una serie di grossi prestiti
concessi dalle banche fiorentine
(delle famiglie Acciaioli, Bardi, Peruzzi…)
ai sovrani europei, e mai restituiti,
provocava un susseguirsi di fallimenti bancari,

a loro volta destinati a tradursi
in gravi dissesti per le medie
e piccole imprese mercantili
che a quelle grandi banche
avevano affidato la gestione dei loro capitali.

Fallimenti a catena,
svendite di beni mobili,
nuovi concentramenti di ricchezza
e generale impoverimento
furono gli esiti di un ristagno economico-finanziario
che era profondamente collegato alla crisi generale.

L’epidemia giunse insomma
sì nella fase matura di un processo di espansione
che aveva portato uomini e navi
dai porti dell’Europa cristiana
a quelli del Mediterraneo orientale,
ma sembrò anche annunciata
da una depressione generale.

Nel 1346 la peste,
proveniente dall’Asia centrale,
aveva colpito Tabriz e Astrakan;

da quest’ultimo centro,
risalendo il Volga
e raggiungendo quindi il Don
per ridiscendere verso il Mar Nero,
arrivò a invadere la penisola di Crimea.

Nel 1347 i mongoli
del khanato dell’Orda d’Oro
all’attacco della città di Caffa, oggi Feodosia,
importante emporio commerciale genovese,
gettarono corpi di appestati oltre le mura,
“inventando” così la guerra batteriologica.

In questo caso, non c’era bisogno
che la città fosse invasa dai ratti,
bastava che i morti
usati come bomba batteriologica
fossero abbastanza recenti:

in effetti la pulce in grado d’inoculare il bacillo
non abbandona né le carogne degli animali
né i cadaveri umani
prima che la loro temperatura corporea
sia scesa al di sotto dei 28 gradi.

Alla fine di quello stesso anno 1347,
la peste aveva raggiunto Messina
e poi Marsiglia e Genova,
mentre stava infuriando già nell’isola di Cipro,
ad Alessandria d’Egitto e al Cairo;

un anno dopo,
stava devastando le città interne
del mondo mediterraneo
e aveva già invaso i porti atlantici
francesi, inglesi, danesi.

Il contagio interessò praticamente tutta l’Europa,
dalla penisola iberica all’Inghilterra
e dalla penisola scandinava alla Moscovia.

Resta tuttavia il dubbio,
per quanto riguarda l’area europea orientale,
sulle linee seguite dal contagio.

Due sono le ipotesi:
dal Mediterraneo,
o lungo i grandi fiumi russi.

Fu comunque dal Mar Nero
o dai porti del Mediterraneo settentrionale
che la peste arrivò al delta del Nilo
da dove risalì il fiume verso sud,
mentre si estendeva anche in Siria e in Palestina.

Si calcola che le regioni interessate dal contagio
persero dalla metà ai due terzi dei loro abitanti.
Fra 1351 e 1354 venne infine colpita la Cina.

La strage fu di dimensioni paurose:
si calcola che la popolazione dell’Europa occidentale
fosse di circa settantatre milioni di abitanti
ai primi del secolo,
saliti a un’ottantina circa all’inizio del contagio.

Tra il 1347 e il 1350 esso ne uccise,
stando ai calcoli più attendibili,
dai venti ai venticinque milioni,
vale a dire più o meno un terzo:

tuttavia, con larghissime variazioni
nei quozienti di mortalità tra le differenti aree,
variazioni difficili a rilevarsi con certezza
data la disomogeneità qualitativa e quantitativa
delle fonti disponibili area per area,
che ne rende molto incerto l’uso ai fini demografici.

Si tratta sempre e comunque di stime indicative;
in ogni caso, si parla di una falcidia
che in certe zone arrivò a colpire
tra il quaranta e il sessanta per cento degli abitanti.

Resta comunque aperto il problema
della valutazione complessiva dell’età
a cavallo fra Tre e Quattrocento.

Nel corso del tempo
si sono affermate due scuole di pensiero contrapposte:
l’una, maggioritaria,
interpreta il periodo come un lungo momento
di “depressione” dell’economia e della società;

l’altra sostiene invece
che il brusco calo demografico
portò a un complessivo miglioramento del rapporto
fra popolazione e risorse,
divenuto insostenibile nel primo Trecento.

In entrambi i casi, è evidente che la crisi sistemica
non portò a una distruzione della società,
nonostante la gravità delle perdite,
ma a una sua parziale ridefinizione,
dopo la quale l’Europa si avviò
verso un’espansione atlantica (e non solo)
che ne denota la vitalità economica.

Insomma una crisi e una rinascita
per una società che evidentemente
aveva gli anticorpi culturali e sociali per reagire.

Ci si chiede per altri periodi e situazioni
se una crisi del sistema
debba portare alla sua caduta definitiva.

Il primo modello che viene in mente
è quello dell’Impero romano;
tuttavia anche in questo caso
la crisi del III-IV secolo ne riguardò una parte,
quella occidentale,

perché l’orientale che siamo soliti
chiamare “Bisanzio” – con la Nuova Roma,
Costantinopoli, al centro –
non conobbe il medesimo declino.

Peraltro anche in Europa,
il momento di crisi fu superato
dando nuovi assetti alla società
attraverso la formazione
dei cosiddetti regni romano-barbarici,
poi culminati nell’età carolingia.

Questo è vero anche al di fuori dell’Europa:
pensiamo alla società maya,
per la quale spesso si è parlato
di una crisi sistemica
tale da portare a un collasso totale
e a una sparizione.
Ma fu davvero così?

Fra le civiltà sviluppate
nel continente americano,
quella dei maya è presumibilmente la più antica:
sorta in Guatemala,
nei secoli IV-VII conobbe una fase
detta “dell’Antico Impero”,
con città-stato rette da dinastie familiari;

poi, agli inizi del IX secolo,
l’arrivo o l’affermazione di un altro popolo,
quello dei toltechi,
spinse i maya a spostarsi verso lo Yucatan,
dove dettero inizio al fiorente “Nuovo Impero”.

I maya erano costruttori
di grandi templi in pietra
e inoltre conoscevano una scrittura ideografica
non ancora del tutto decifrata;
e per di più erano adepti di un culto astrale
che li aveva condotti a sviluppare
profonde cognizioni matematico- astronomiche.

La rivalità con i toltechi si prolungò per secoli
ed era al suo culmine all’arrivo degli spagnoli.
Di fatto, nel XV secolo
i maya erano tornati a spostarsi nelle aree di provenienza,
respingendo un assalto tolteco.

Quando gli europei conquistarono il Messico,
i maya si ritirarono allora nelle foreste,
dove continuarono a vivere indipendenti
ancora a lungo: la loro ultima città libera
cadde nel XVII secolo.

Certamente, le grandi città dello Yucatan furono abbandonate,
ma la popolazione trovò nuove forme di vita comune,
delle quali non conosciamo molti dettagli,
anche se la ricerca archeologica fa progressi.

L’invito che quindi scaturisce
da esempi come quelli or ora richiamati
consiste nel non adottare meccanicamente
modelli catastrofisti
di nascita-crescita-collasso delle civiltà,
perché esistono infiniti modi di superare
o aggirare le crisi:

difficilmente le culture spariscono,
più facilmente si trasformano

e nell’adattamento
trovano una risposta alle catastrofi;
persino titaniche, come quella dinanzi alla Morte Nera,
altre volte più mediate,
come quella della pars occidentis dell’Impero romano
o dei maya dinanzi alla fine del loro dominio nello Yucatan.

A proposito di altre crisi,
quella dell’Impero romano d’Occidente,
a cui abbiamo accennato,
è tra le più note.

Riferendosi all’anno 476,
quando l’imperatore Romolo
(detto Augustulus per la sua giovane età)
venne deposto senza troppe formalità
dal suo magister militum,
il germano Odoacre re degli Eruli,

il grande Attilio Momigliano parlò
di una “caduta senza rumore”,
il che evidentemente fu verissimo
sul piano formale e immediato delle istituzioni,
le quali prive della suprema magistratura che ne era il motore
si avviarono a un rapido e poco drammatico collasso.

Per la verità, però, il processo di “decadenza”
che accompagnò la “caduta”
fu più lungo e meno indolore:

nella pars Occidentis istituzioni e strutture
erano da tempo sofferenti,
mentre in quella Orientis erano ben vive e salde
e, dopo la frattura causata dalla quarta crociata e
dall’“ impero latino di Costantinopoli” (1204-1261),
avrebbero sostanzialmente superato bene la crisi del 1453

e la basileia ton Romaion si sarebbe mantenuta
intatta – pur avendo mutato idioma dal greco al turco
(ma il greco era rimasto diffusissimo a tutti i livelli)
e cambiato religione preminente dal cristianesimo all’islam –
sotto le mutate spoglie sultaniali
e poi addirittura califfali ottomane
fino alla sconfitta del 1918;

la crisi, e non solo nell’ampia area tra Balcani,
Asia Minore, Vicino Oriente e Nordafrica,
sarebbe arrivata allora
e avrebbe mantenuto un livello quasi incontrollabile
almeno fino al disastroso crack finanziario del 1929
e, poi, alla ridefinizione mondiale
dell’equilibrio politico-militare successiva al 1945.

Fra Tre e Quattrocento tuttavia,
mentre guerre, pestilenze e carestie
si avvicendavano abbattendosi
sull’intero quadrante europeo,
con un trend che avrebbe caratterizzato
la vita continentale sino al secolo XVIII,

il movimento di lenta ma progressiva ripresa
che aveva caratterizzato l’Europa
lentamente tra VI e X secolo
e con maggior decisione nella lunga congiunzione positiva
dei secoli XII-XIV – per imbattersi poi,
come già sappiamo, nella pandemia della “Peste Nera”

conobbe un’improvvisa e travolgente
primavera culturale, in drammatico contrasto
con i caratteri di durezza di secoli,
quelli fra Quattro e Seicento,

tormentati da una ricorrente pandemia,
da continue carestie, da un abbassamento del clima
(la “piccola età glaciale”) e da continui scontri militari
che, culminati nella “Guerra dei Trent’Anni”
fra 1618 e 1648, sembrarono placarsi solo
con i trattati cosiddetti di Westfalia,

qunado le potenze europee (segnatamente la Francia,
il Regno Unito e il Sacro Romano Impero)
intrapresero una pur difficile e tormentata strada
all’insegna della conclamata
inter christianos tolerantia,
che metteva perlomeno un limite
alle cosiddette “guerre di religione”.

Un quadro ben tormentato, quindi,
questo dell’Europa
che fra Tre e Cinquecento
aveva avviato il cammino – che si volle fulgido –
del cosiddetto Rinascimento.

Eppure, nonostante le dure condizioni di vita
di quel periodo, di “Rinascimento” davvero si trattò.

Gli ultimi secoli del Medioevo
erano stati caratterizzati da un’alta,
profonda, intensa riscoperta del mondo romano
con le sue arti e la sua cultura.

E la stessa Chiesa romana,
che pur si sarebbe di lì a poco
spezzata in due tronconi
con la Riforma luterana e poi calvinista,

aveva incentivato una rilettura profonda
degli idiomi e delle culture prima latini,
poi addirittura anche greci,
che era stata alla base
della riconsiderazione stessa
del rapporto fra tradizioni e società:

più che di un “Ri-nascimento”,
di una “Seconda Nascita”,
si trattò dell’autentica fondazione
di una cultura del tutto nuova

che, originalmente e profondamente radicata
nella classicità greco-romana
ma vivificata al tempo stesso
dal soffio potente della Rivelazione evangelica,
presiedé al costituirsi di alte e profonde novità
nella letteratura, nelle arti e nell’etica
e nella politica del tempo.

Nonostante le molte componenti ermetiche
e anche qualche rigurgito neopagano,
questa nuova cultura – che nella sua fase iniziale
fu chiamata appunto “umanistica” –
si fondava sulle humanae litterae
e su una visione profondamente religiosa:

Cristo Dio e Uomo al tempo stesso,
misura dell’essere umano,
definito da Pico della Mirandola
“Divino Camaleonte”
capace di qualunque trasformazione.

Tuttavia, questo antropocentrismo – chiave profonda
della Modernità – celava al suo interno
il pericolo dell’immanenza:
una volta sostituito dall’uomo
al centro dell’Universo e del Tempo,
Dio rischiava la progressiva emarginazione:

e, implicitamente con essa,
la negazione che la vita umana
avesse un senso e uno scopo trascendenti.

La chiesa della missione di Concepciòn, in Bolivia, fondata nel 1708 / evaneos.it

Paradossalmente però
l’assalto del moderno Occidente al resto del mondo,
condotto nel segno delle invenzioni e delle scoperte,
si perpetrò nel nome di Cristo e del Vangelo:

l’Europa nella quale,
con le guerre di religione
e con la stanchezza da esse cagionata,
progrediva a grandi passi
la secolarizzazione della politica e dell’etica,

spiegava le sue ali conquistatrici
sugli altri continenti
conferendo a tale conquista
il senso della missione evangelizzatrice.

Caratteristica al riguardo
l’epopea del Nuovo Mondo,
dove la lotta dei conquistadores
contro le credenze pagane dei popoli indigeni

progredì e si connotò
secondo lo spirito crociato
e missionario al tempo stesso,
del quale furono campioni uomini
quali Hernán Cortes e Francisco Pizarro.

Evangelizzati sommariamente
oppure mantenuti lontani dal sacramento redentore
in modo da perpetuarne sotto forme legittime
la condizione schiavistica,

gli indios – decimati frattanto
da malattie contagiose
delle quali gli spagnoli erano portatori –
venivano costretti al lavoro forzato
nelle miniere d’oro e d’argento:

ma il flusso di metallo prezioso
che inondò a quel punto
la Casa de Contratación di Siviglia,
centro dello smistamento di quelle ricchezze,

fu causa di un’inflazione disastrosa
(la cosiddetta “rivoluzione dei prezzi”)
che sconvolse l’economia europea
riducendo in miseria intere classi sociali.

A correggere in qualche misura questa dinamica
intervennero le cosiddette nuevas leyes
introdotte dall’imperatore Carlo V d’Asburgo
(Carlo I come re di Castiglia e Aragona)

sulla base dell’energica insistenza
del domenicano Bartolomé de las Casas,
strenuo difensore della causa degli indios,
dei loro diritti e delle loro libertà.

Tutto ciò favorì l’integrazione etnoreligiosa
e l’avvio di una nuova cultura
della quale sono ancora testimoni i monumenti religiosi,

sintesi di tradizione medievale
e d’innovazione plateresco-barocca,
non meno di una produzione mistica e poetica
che ebbe il suo acme
nella voce di un nobilissimo personaggio
ispano-peruviano, Garcilaso el Inca de la Vega.

L’acculturazione religiosa cristiano-india
fu ricca di frutti straordinari
come le liturgie “cristico-solari”
e il culto della Vergine di Guadalupe.

Più tardi, alle razzie organizzate dalle bande di negrieri
(detti paulistas o bandeirantes)
che desolavano la provincia del Guaraní – sostenuti
dall’illuminato ma anche spregiudicato governo
del primo ministro portoghese marchese di Pombal,
cui premeva l’incremento della produzione -,

i missionari gesuiti risposero
organizzando la resistenza
di ordinati reparti di indios
provvisti di armi da fuoco.

L’episodio, stigmatizzato ipocritamente
da Voltaire in una pagina del Candide,
ripresa da Italo Calvino ne Il Barone Rampante,
fu celebrato da Muratori nel suo Cristianesimo felice

e nel 1986 è stato riproposto
in un film di successo, Mission,
che provocò tuttavia a suo tempo
un’incredula, maldestra replica su “L’Espresso”
firmata nientemeno che da Alberto Moravia.

Senza questi precedenti,
non si spiega il miracolo
del grande Jorge Mario Bergoglio,
umile gesuita latino-americano
e battagliero seguace di san Francesco d’Assisi
nella lotta a tutela dei poveri.

Franco Cardini (storico medievista),
«Nella storia tutto si trasforma», in
“Luoghi dell’Infinito”,
gennaio 2022, n. 268, pp. 16-25.

Foto: Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale,
1536-1541, affresco, 1370×1200 cm, Cappella Sistina,
Musei Vaticani, Città del Vaticano / it.wikipedia.org

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