Via Francigena

Via Francigena
Un itinerario del Medio Evo da Canterbury a Roma

Via Francigena – All’avvicinarsi dell’anno 2000,
Anno Santo, il Consiglio d’Europa
ha dichiarato la via Francigena
(chiamata anche via Romea,
poiché Roma era la meta dei pellegrini
che la percorrevano)
«Itinerario culturale europeo».

In effetti questo percorso
dei pellegrini copriva,
fin dall’alto Medioevo,
tutta l’Europa occidentale.

Infatti partiva dall’Inghilterra,
precisamente da Canterbury,
dove il monaco Agostino,
inviato da Papa Gregorio Magno
al fine di convertire gli Angli,
aveva fondato la prima abbazia
benedettina d’Inghilterra

e dove più tardi sorgerà il santuario
del santo vescovo Thomas Becket;

attraversava successivamente
per intero la Francia,
dove a Pontarlier alla Francigena
si riuniva il braccio
proveniente dalla Germania.

La strada attraversava di seguito la Svizzera,
le Alpi per il passo del Gran San Bernardo
(o del Moncenisio);

in Italia percorreva dapprima
la Valle d’Aosta,
il Piemonte e la Lombardia,
attraversava successivamente l’Emilia,
la Lunigiana e la Toscana,

entrava poi nel Lazio settentrionale
per raggiungere finalmente Roma,
cioè la tomba dell’Apostolo Pietro
e la vera immagine di Cristo,
la «Veronica nostra»,
come la definisce Dante.

Ma prima, dalla sommità di Monte Mario,
i pellegrini potevano scorgere per la prima volta
la meta del loro viaggio, la basilica di S. Pietro,
e lì si inginocchiavano intonando l’inno
«O Roma nobilis, Orbis es domina/
Cunctarum urbium excellentissima…».

Ecco perché Monte Mario fu chiamato
nel Medioevo «Mons Gaudii»/«Montjoie»
(cioè Monte della gioia, in antico francese,
come nel poema Ami et Amile del celebre ciclo
delle Chanson de geste risalente al 1000-1100,

o «Feginsbrecka» come nella memoria scritta
in antico norvegese, da Nikulas di Munkthvera,
abate del monastero islandese di Thingor
che fra il 1151 e il 1154 intraprese
un lunghissimo viaggio che lo condusse a Roma
e poi in Terrasanta).

Infatti i più coraggiosi
o i più resistenti fra i pellegrini,
dopo Roma, proseguivano per Gerusalemme,
verso il Sepolcro di Cristo.

Dante li distingue con nomi differenti
secondo la destinazione del loro pellegrinaggio:
«…chiamansi palmieri
in quanto vanno oltremare,
là onde molte volte recano la palma…
chiamansi romei in quanto vanno a Roma».

Questa strada dei pellegrini romei,
come grande direttrice viaria,
«comincia ad essere documentata
nella prima metà dell’VIII secolo,
nell’Itinerarium Sancti Willibaldi,

ma quello che oggi consideriamo
il tracciato fondamentale della via Francigena
ci è stato tramandato
dalla scarna ma precisa memoria di viaggio
di un Arcivescovo di Canterbury, Sigerico…».

Sigerico infatti
era venuto a Roma nel 990
al fine di ricevere l’investitura di Arcivescovo
dalle mani del Pontefice Giovanni XV;
sulla via del ritorno in patria,
redasse un diario di viaggio
intitolato De Roma usque ad mare.

Impiegò circa tre o quattro mesi
per percorrere le mille miglia
che separano Canterbury da Roma

e registrò tutte le ottanta tappe
da lui superate, cioè le località
dove si trovava un monastero,
un santuario ovvero un ospizio
per l’alloggio dei viandanti.

In effetti, i pellegrini viaggiavano a cavallo
ma più frequentemente a piedi,
per di più su strade selciate
in maniera rudimentale.
Oltre a ciò, incorrevano talvolta
in pericoli anche molto gravi:

su tutto il passaggio delle Alpi
assai difficoltoso,
ma anche gli assalti da parte di banditi,
ovvero di popolazioni straniere
assai frequenti.

Ecco perché coloro
che si mettevano in viaggio,
facevano prima testamento.

«Tra gli episodi più cruenti»,
è scritto nel catalogo della mostra
che è stata ospitata recentemente
a Castel S. Angelo,
«va ricordata
la distruzione dell’abbazia di Novalesa,
il massacro dei pellegrini diretti a Roma

inoltre il rapimento di S. Maiolo,
abate di Cluny, catturato nel 972
presso il Gran San Bernardo dai Saraceni».

Si sviluppò perciò la costruzione di fortificazioni
sul percorso della Francigena:
il castello di Fenis in Val d’Aosta, era un rifugio
per chi proveniva dal Gran San Bernardo,
mentre l’abbazia-ospizio di S. Michele della Chiusa,
in Piemonte, era un riparo per i viaggiatori
che provenivano dal Moncenisio.

Inoltre, in Lombardia, Pavia,
dopo essere stata sede dei re longobardi,
era stata devastata dagli Ungari,
ma già verso il 1050
era divenuta comune floridissimo
e poteva offrire una pausa sicura
al lungo andare.

Pellegrini in cammino verso Roma scolpiti in un rilievo del Duomo di Fidenza (fine XII secolo) / es.m.wikipedia.org

A Piacenza, in Emilia,
si doveva attraversare il Po.
Dopodiché Fidenza («Sancte Domnine»
nel diario di Sigerico)
era un’altra tappa dei pellegrini;

Dalla Biblioteca Palatina di Parma
proviene una miniatura
con «Il miracolo di S. Giacomo»
che porta in groppa al suo cavallo bianco
due pellegrini stanchi del lungo viaggio.

Successivamente Berceto (nella cui pieve
si conservano reliquie di santi francesi e tedeschi)
era l’ultima tappa sulla strada romea
prima del Passo della Cisa,
che conduceva alla verde Lunigiana.

Il Passo della Cisa anticamente
era chiamato «Passo di Monte Bardone»

e Via di Monte Bardone
(Mons Langobardorum)
fu il primo nome di quella che in seguito,
quando alla dominazione longobarda
si sostituì la dominazione franca,
sarà chiamata «via Francigena»
(strada dei Franchi) o «via Romea».

A Pontremoli la chiesa di S. Giorgio
svolgeva funzioni di ospizio.
A Lucca, inoltre, i pellegrini
potevano venerare il Volto Santo.

Successivamente, S. Gimignano
(Sancte Gemiane nell’Itinerario di Sigerico),
Poggibonsi, Siena erano altre tappe
della via Francigena, come pure S. Quirico.

Invece Radicofani,
rappresentava un punto pericoloso,
a causa degli agguati
tesi dall’alto della rocca.

Continuando, nell’Abbadia di S. Salvatore,
sulle pendici dell’Amiata, si conservava
un reliquario scotoirlandese dell’VIII secolo,
nonché il famoso Codex Amiatinus
(attualmente nella Biblioteca Laurenziana
a Firenze),

cioè una monumentale Bibbia inglese
dello stesso secolo, che l’abate Ceolfrido,
fondatore di Wearmouth e Jarrow
(nella Northumbria) intendeva portare
personalmente in dono a Papa Gregorio II,
ma che, a causa della morte del vecchio abate
durante il viaggio, a Roma non giunse mai.

Via Francigena di Monte Bardone da Berceto a Pontremoli / guidedelpennato.com

A Monteriggioni, a S. Gimignano,
a Pieve d’Elsa rimangono ancora tracce
del selciato dell’antica strada medievale.

Presso Poggibonsi, inoltre
lo spedale gerosolimitano di S. Croce di Torri
offriva ospitalità ai viandanti,
e ad Altopascio i frati
della congregazione ospitaliera del Tau
provvedevano anch’essi alla loro assistenza:

l’abbazia di Altopascio era talmente nota
che, come narra Piero Bargellini,
«i pellegrini francesi si munivano a Parigi,
della tessera d’ingresso».

Le ultime tappe del lungo peregrinare
erano Acquapendente, Bolsena,
Montefiascone (con la chiesa di S. Flaviano),
Viterbo, Sutri, Baccano,

e La Storta (che Sigerico chiama Johannis VIIII,
poiché al nono miglio della via Cassia
esisteva un’antica chiesa
chiamata San Giovanni in Nono).

Tracce delle leggende
delle celebri «Chansons de geste»
sui conti-palatini di Carlomagno,
portate dai pellegrini francesi,
erano diffuse non solo nell’Emilia,

ma anche nel Lazio,
dove si narrava che Sutri
fosse il luogo natale di Orlando.

Dalla via Cassia si staccava la via Trionfale
e i «romei» frequentemente
preferivano percorrere quest’ultima strada,
poiché la Cassia, nell’ultimo tratto,
era sovente allagata dalle piene del Tevere,

e sulla Trionfale raggiungevano
il punto culminante di Monte Mario,
il Mons Gaudii,
di cui abbiamo detto all’inizio.

Qui più tardi, nel 1350,
il Vescovo Ponzio Perotti
farà costruire la chiesa della S. Croce
(o Cappella del SS. Crocifisso),
demolita alla fine dell’Ottocento.

Poi, discendendo dal colle, incontravano
la chiesetta di S. Lazzaro dei Lebbrosi,
ancora esistente, cui era annesso
il più antico lazzaretto d’Europa,

e proseguendo per quel tratto
che costituisce l’odierna via Leone IV,
e per la via S. Pellegrino
(attualmente nell’interno della Città del Vaticano),
attraverso la porta Sancti Petri
(o Viridaria o Aurea),
ancora esistente ma sempre chiusa,

raggiungevano infine la basilica di S. Pietro
che li avrebbe accolti nelle sue materne braccia.

Successivamente, presso la basilica,
i pellegrini, stanchi ma esultanti
per aver finalmente raggiunto la loro meta,
sarebbero stati ospitati e ristorati
nelle differenti «scholae»

(chiamate anche
con termine germanico «burg»),
che fin dall’VIII secolo re o abati stranieri
avevano fondato per i loro connazionali
che intraprendevano il lungo viaggio
alla volta di Roma.

Due plastici (eseguiti nel 1911
e accuratamente restaurati
dal Museo di Castel S. Angelo) erano esposti
in una sezione speciale della mostra:

essi rappresentano
la basilica di S. Pietro in Vaticano
e il complesso di S. Giovanni in Laterano
nell’originario aspetto,
come dovevano presentarsi
agli occhi degli antichi pellegrini,
prima delle trasformazioni avvenute
in seguito, a partire dal ‘500.

E in una bacheca erano esposte
quattro piccole insegne, in piombo,
dei pellegrini, rinvenute nel Tevere,
conservanti ancora l’occhiello
che serviva per appuntarle all’abito
e che i «romei» portavano con orgoglio.

La Bolla di Bonifacio VIII
del 22 febbraio 1300
darà il riconoscimento ufficiale
ai pellegrinaggi spontanei
che datavano già, come abbiamo visto,
da parecchi secoli addietro,

istituendo il Giubileo,
l’Anno Giubilare di Mosè,
che nel nome stesso,
come scrisse Bargellini,
richiama la gioia,
l’appello a tutte le genti,
la remissione dei debiti e dei peccati.

Luciana Frapiselli, «Dalla sommità di “Mons Gaudii”
i pellegrini intonavano l’inno «O Roma nobilis,
Orbis es domina», in “L’Osservatore Romano”,
venerdì 23 giugno 1995, p. 3.

Foto: Via Francigena / fr.m.wikipedia.org

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