Benedizione

Benedizione – Nm 6,22-27 – Maria Madre di Dio

Benedizione. C’è una liturgia laica che presiede alla fine dell’anno vecchio e all’inizio dell’anno nuovo.
Le sue espressioni le conosciamo. Vogliamo qui ricordarne solo due: i pronostici e gli auguri.
I pronostici rispondono al bisogno di creare qualche varco dentro lo spessore dell’inconoscibile, dell’imprevedibile, del mistero.
Gli auguri riguardano invece non più la dimensione della conoscenza, ma quella della volontà:
si vorrebbe per sé e per gli altri un’esistenza pienamente e gioiosamente realizzata.

Ci vuole poco però a capire che pronostici e auguri soffrono di una sorta di impotenza
perché non valgono a modificare i limiti della nostra condizione creaturale.
Ci si augura “buon anno” senza sapere che cosa accadrà.
La liturgia laica, dunque, anche se interpreta legittimamente certe esigenze profonde, non basta.

Occorre un’altra liturgia – ed è quella che stiamo celebrando –
che muove i nostri passi incontro al futuro con un senso maggiore di speranza e di pacificazione interiore.

Di questa liturgia fissiamo l’attenzione sulla parte offertaci dalla Prima Lettura, tratta dal libro dei Numeri (6,22-27).
In essa, come augurio per l’anno nuovo, ci viene ricordata la benedizione sacerdotale,
voluta da Dio e limitata ad Aronne e alla sua discendenza.
Secondo la tradizione rabbinica, questa benedizione era pronunciata per benedire il popolo, ogni giorno, dopo il sacrificio della sera.

«Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: Così benedirete gli Israeliti: direte loro…» (v.23).
Le parole della benedizione sono consegnate a Mosè da Dio stesso:
nonostante esse saranno poi pronunciate dai sacerdoti, Dio resta la fonte di ogni benedizione per il suo popolo.

Come la parola divina raggiunge il popolo attraverso la mediazione del profeta, così la benedizione del Signore raggiunge i figli d’Israele attraverso il sacerdote.
Nella tradizione ebraica è di fondamentale importanza la cooperazione umana al progetto divino.
Anche nel nostro caso siamo di fronte a un esempio di come il Signore richieda la partecipazione dell’uomo alla sua opera.

«Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (vv. 24-26).

Va anzitutto rilevato che in questa benedizione sacerdotale siamo di fronte a uno dei più antichi esempi di scrittura ebraica
e soprattutto alla più antica attestazione delle quattro consonanti con cui Israele indicava il nome del suo Dio, JHWH.

In secondo luogo, la benedizione si configura come personale e collettiva allo stesso tempo:
il suo destinatario è menzionato con pronomi di seconda persona singolare,
ma tanto nella frase introduttiva (v. 23) quanto in quella conclusiva (v. 27) si fa menzione dell’intera comunità degli Israeliti,
in mezzo ai quali Dio stabilirà la sua presenza.

Inoltre, il testo della benedizione è articolato in tre strofe parallele,
scandite dalla ripetizione del nome divino di JHWH (tradotto qui come Signore),
anche se allora mai pronunciato, ma sostituito con altri nomi.

Ognuna di queste strofe è strutturata in due fasi,
dove la prima di esse invoca una particolare disposizione di Dio verso colui che riceve la benedizione,
mentre la seconda auspica un’azione divina a suo favore.

Infine, ognuna di queste strofe rivolge al destinatario della benedizione una sorta di augurio.

Le formulazioni augurali contenute nel nostro testo non sono da intendere come espressione di semplici auspici o desideri.
Piuttosto, nella mentalità semitica, frasi augurali di questo tipo
intendono esprimere la consapevolezza che il contenuto della benedizione del Signore diventerà presto realtà,
grazie all’efficacia della sua Parola.

La prima benedizione («Ti benedica il Signore e ti custodisca») (v. 24) invoca sul singolo israelita la benedizione del Signore e la sua protezione.
Questa esplicita invocazione della benedizione, posta in apertura dell’intera formula, assume valore anticipatorio:
in questa richiesta sono implicitamente contenute le grazie richieste nel seguito del testo.
Il verbo ebraico šmr (tradotto con «custodisca») comunica l’idea di una protezione da ogni forma di male, materiale e spirituale.

La seconda benedizione («Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia») (v. 25) introduce il motivo del volto,
che sarà ripreso anche nell’ultima parte della benedizione.

Il volto rivela l’essere di una persona,
al punto che non di rado nel linguaggio biblico il riferimento al volto assume una portata più ampia,
finendo per indicare l’intera persona.
Nell’Antico Testamento il volto del Signore era oggetto del più profondo desiderio dell’animo umano, come ricordano le parole del salmista:
«Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 27,8).

Nel nostro caso, il sacerdote invocherà sull’israelita lo splendore glorioso del volto del Signore.
Nel linguaggio biblico, in particolare in quello dei Salmi (31,17; 67,2; 80,4.8.20; 119,135), l’orante chiede a Dio di far brillare su di lui il volto,
metafora mediante la quale egli domanda che il favore divino sia rivolto verso di lui.

«Il Signore faccia risplendere per te il suo volto» non significa tanto: “il Signore sorrida
ma il Signore ti faccia percepire la sua presenza e personalità (volto)
e ti faccia gustare quanto è illuminante e rassicurante il rapporto con Lui”.

L’espressione «faccia brillare per te il suo volto» è antitetica a «nascondere il volto»,
altra espressione spesso utilizzata dalla Scrittura,
che di solito esprime la collera e il risentimento di colui del quale essa si riferisce.

Si comprende, allora, il secondo membro di questa seconda strofa «e ti faccia grazia»,
in cui si chiede che il Signore faccia grazia all’israelita,
ossia riveli su di lui la sua misericordia e la sua benevolenza, che sono agli antipodi della sua ira.

La terza benedizione raggiunge il culmine con la promessa della pace:
«Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda shalôm» (v. 26)

Vi è un ordine crescente nella triplice benedizione,
che inizia con i bisogni materiali dell’essere umano,
prosegue con quelli spirituali
e infine li unisce con la benedizione dello shalom,
che indica una completezza e pienezza di vita.
Questo crescendo si può notare anche nella struttura dei versetti,
in quanto la prima benedizione contiene in ebraico tre parole, la seconda cinque e la terza sette.

La benedizione torna a invocare l’attenzione dello sguardo del Signore verso il destinatario della benedizione.
Alcuni autori suggeriscono che, dietro la traduzione dell’espressione «Il Signore sollevi il suo volto verso di te»
(così in una traduzione letterale dall’ebraico),
vi possa essere un riferimento esplicito al sorriso di Dio.
In ogni caso, la formula intende richiamare il volto di Dio come caratterizzato da un’espressione che lascia trasparire la sua tenerezza e il suo affetto.

Si riprende in questa benedizione quanto è già stato espresso nella benedizione precedente
con l’auspicio che il volto di Dio resti rivolto verso Israele,
segno di attenzione e di benevolenza,
perché in caso contrario il popolo cade nella disperazione (cf. Sal 30,8; 44,25).

La benevolenza e l’attenzione di Dio sono premessa del dono della «pace» (shalôm).
Questo termine in ebraico è ben più ricco di quanto possa significare nella cultura moderna.
Esso indica non semplicemente l’assenza di guerra, ma soprattutto la pienezza di vita,
cioè quello stato in cui si è liberi dalla necessità, dal male.

Nelle forme di saluto diventa augurio di una vita serena, equilibrata nella felicità materiale e spirituale (cf Lv 26,6; Gb 21,9).
Nel contesto dell’alleanza, la pace implica la possibilità di instaurare un profondo rapporto con Dio,
che si estende ai propri connazionali e a tutta l’umanità.

È il riferimento a una Entità superiore,
garante dei valori fondamentali della convivenza umana,
che rende l’uomo capace di vincere le suggestioni del proprio egoismo
e di rivolgersi all’altro come a un fratello.

Le parole di questa triplice benedizione possono essere comprese così:

«Il Signore ti usi bontà e misericordia, ti manifesti un volto accogliente, disposto alla comunione e all’ascolto.
Si curvi su di te, lì dove sei, nei pericoli, nelle afflizioni, nelle prove, nella gioia, nella debolezza quotidiana.
Sia con te dopo il tuo peccato.

Distenda su di te i suoi lineamenti in un gesto di benevolenza, di protezione, di compiacenza per la tua preziosità.
Prenda possesso della tua vita con grande cura.

Ti dia la gioia di appartenergli e questa unione con lui sia per te fonte di pace,
cioè di pienezza di vita e di sicurezza,
di relazioni vere e piene con te stesso, con i tuoi familiari, con la società e nella Chiesa».

Il brano termina con queste parole: «Così porranno il mio nome sugli israeliti e io li benedirò» (v. 27).
Si conferma così la consegna ufficiale della formula ai sacerdoti i quali,
pronunciando il nome di YHWH sugli israeliti,
dichiarano la loro appartenenza a lui e si fanno mediatori della sua benedizione.
Porre il nome di Dio sugli israeliti richiama il gesto concreto dell’imposizione delle mani,
segno ordinario del conferimento di una benedizione.
La benedizione ha lo scopo di attirare sul popolo la protezione divina.

Iniziamo l’anno nuovo, ponendo su ciascuno di noi il nome di Dio Padre,
riconoscendo che tutti gli apparteniamo, siamo per lui preziosi,
e che ci tiene nella sua mano e ci aiuterà a vivere giorno dopo giorno.

Foto: Filippino Lippi, Madonna col Bambino e angeli, 1465 circa, Uffizi, Firenze / lij.m.wikipedia.org

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