Agnello immolato

Agnello immolato

Agnello immolato. Quanti dolori, quante lacrime e amarezze nella vita dell’uomo! Perché tanti soprusi, violenze e ingiustizie nel mondo?

Quattro capitoli dell’Apocalisse sono dedicati a questo angosciante problema. È la sezione dei sette sigilli (Ap 5-8).In una visione, Giovanni scorge nella destra del Signore, assiso in trono, il libro in cui è registrata la storia dell’umanità, con tutti i drammi che da sempre la affliggono e la risposta agli inquietanti enigmi del male e del dolore. Purtroppo il libro è “sigillato” con sette sigilli, che nessuno è in grado di spezzare (Ap 5.1-3).

Rimarranno dunque sempre velati i misteriosi disegni di Dio?

A Giovanni che piange inconsolabile, un vegliardo gli si accosta e gli dice: «Non piangere; ecco: ha vinto il Leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide, per cui può aprire il libro e i suoi sette sigilli» (Ap 5.4-5).

Ecco, infatti, l’Agnello immolato spezzare, uno ad uno, i sigilli e svelare gli enigmi.

La Prima Lettura narra ciò che accade dopo la rottura del sesto sigillo. Più precisamente riferisce due visioni di Giovanni.

Nella prima visione (vv. 2-4), quattro angeli, posti ai quattro angoli del , mondo, stanno per liberare i venti che devasteranno la terra e il mare (v. 1 non riportato dal nostro testo), quando un angelo, con in mano il sigillo del Dio vivente, viene dall’oriente e ordina di fermarsi. Non tutti devono perire. Coloro sui quali egli avrà impresso il marchio dei servi del Signore saranno risparmiati (vv. 2-3). Dopo di che Giovanni ode il numero dei segnati: centoquarantaquattromila (v. 4).

Cerchiamo di decodificare questa visione.

All’inizio è ritardato l’intervento punitivo dei quattro angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele («Passa attraverso la città di Gerusalemme e segna con un tau (l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, ma anche sinonimo di “firma”) la fronte degli uomini che gemono e sospirano per tutti gli abomini che vi si compiono» (Ez 9,4), Giovanni proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in centoquarantaquattromila, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8 tralasciati dal testo liturgico). Si tratta di un numero simbolico, più qualitativo che quantitativo: risulta dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo) per 1.000 (numero di grandezza divina).

Il numero 144.000 non indica – come qualcuno erroneamente ritiene – i santi del paradiso, ma tutto il popolo di Dio che vive su questa terra.

Non è arbitrario ritenere che nel nostro testo si tratti dei cristiani, secondo l’uso del termine nel libro dell’Apocalisse (cfr. per esempio 1,1; 2,20; 6,11); inoltre non si parla di un segno, ma di un «sigillo» e la scelta del termine non è casuale: con esso si allude alla realtà del battesimo (come in 2 Cor 1,21-22).

Si fraintenderebbe il testo se si intendesse che il sigillo divino risparmia ai credenti le prove e le tribolazioni che affliggono gli altri uomini. Sono turbati, sì, come tutti dalle dure prove attraverso le quali devono passare, ma non sono sconvolti. La malattia, il dolore, i tradimenti per loro non sono sconfitte e assurdità, ma momenti di maturazione e di crescita e la morte non è una beffa, ma una nascita che segna l’inizio della seconda parte della vita, la migliore.

È l’Agnello immolato che, con la sua vita stroncata dall’odio, ma donata per amore, ha rivelato loro che Dio fa rientrare nel suo progetto di salvezza anche gli eventi più assurdi.

Dopo questa prima visione in cui è presentata la comunità dei santi che, su questa terra, è segno della città celeste, ecco apparire una moltitudine immensa che nessuno può contare, gente di ogni razza, lingua, popolo e nazione. Stanno in piedi di fronte al trono dell’Agnello immolato, indossano vesti bianche e hanno palme nelle mani (v. 9).

Cerchiamo di decodificare anche questa seconda visione.

È gente che proviene da tutte le tribù di Israele, ma anche da ogni «nazione, tribù, popolo e lingua». I confini sono abbattuti, le razze travalicate, le culture. La santità non è appannaggio di un’area geografica e neppure di un unico ambito spirituale, se è vero che già l’Antico Testamento aveva presentato santi «pagani» come Enoc, Noè, Giobbe. «Dio, infatti, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). È paradossale ma il 144.000 è uguale all’uno nel linguaggio della salvezza.

Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione: stanno in piedi, indossano vesti bianche, tengono in mano rami di palma (v. 9).

Stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello immolato con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti).

Indossano vesti bianche, rese tali però attraverso una via a prima vista contraddittoria: «hanno reso candide le loro vesti col sangue dell’Agnello immolato» (v. 14).

L’immagine si scioglie nel suo significato se si considera che il bianco nel simbolismo cromatico dell’Apocalisse è la rappresentazione della divinità, della luce perfetta, dell’eternità. Essa è raggiunta attraverso il sangue, cioè attraverso il martirio, e la fedeltà anche nella «grande tribolazione», nella prova, nelle angustie.

Tengono in mano rami di palma. Anche nel mondo romano la palma era agitata nei trionfi imperiali, e quindi è segno di vittoria e di gloria.

In seguito questa gente sarà identificata con maggior precisione.

I versetti che seguono e che non sono riportati nel nostro brano descrivono la sorte che li attende: «non avranno più fame, né sete, non li colpirà il sole né arsura di sorta, perché l’Agnello immolato… sarà il loro pastore… e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (vv. 16-17).

Soprattutto la folla dei salvati partecipa a una corale liturgia celeste, tutta percorsa da canti, da inni, da festosità, da acclamazioni e nella quale accomunano Dio e l’Agnello immolato, posti in perfetta comunione, e a loro riconoscono il merito della salvezza (v. 10). È noto che l’Apocalisse descrive la vita eterna con Dio e con l’Agnello immolato come una festa continua, scandita dal culto e dalla musica (si incontrano concerti di trombe, solisti, cori, arpe e strumenti vari).

Alla celebrazione si associa tutta la corte celeste in una dossologia che comprende sette titoli, il numero della pienezza: «Lode e gloria, sapienza e grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio» (vv. 11-12).

Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide, nel sangue dell’Agnello immolato» (v. 14).

I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice dell’Agnello immolato (Gesù Cristo). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione dell’Agnello immolato.

Il testo dell’Apocalisse ci ha, così, delineato il ritratto del santo: egli appartiene solo a Dio e all’Agnello immolato, appare in ogni angolo della terra e in ogni epoca della storia, vive con fedeltà anche nella prova percorrendo la via della croce, giunge alla meta gloriosa dell’eternità ove per sempre vivrà nella gioia, nel canto, nella gloria, in quell’infinito gorgo di luce e di pace che è Dio e l’Agnello immolato.

Beati, dunque, i puri di cuore che ora vedono Dio; beati questi nostri fratelli che hanno cercato e trovato il volto di Dio.

Foto: Beato Angelico, I Santi, Pala di Fiesole, tempera su tavola (1424-1425), Chiesa di San Domenico a Fiesole / it.aleteia.org

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