Vocazione

Vocazione – Ger 1,4-5.17-19 – Domenica IV del Tempo Ordinario – C

Vocazione. La vocazione profetica di Geremia (627-626 a.C.)
è databile durante il regno di Giosia (640-609 a.C.),
il cui nome è legato alla riconquista dei territorio del Regno del Nord
e, soprattutto alla riforma religiosa,
culminata con la scoperta del libro della Legge (cf. 2 Re 23,4-24; 2 Cr 34-35),
e con la progressiva centralizzazione del culto presso il Tempio di Gerusalemme.

Introduzione

La Prima Lettura si compone di due minuscole unità,
prese dall’inizio del libro di Geremia dove si parla della sua vocazione:
la prima è l’elezione del profeta (vv. 4-5),
la seconda la sua missione intrisa di difficoltà,
ma anche sorretta dalla serena certezza di riuscita
perché Dio accompagna sempre il suo profeta (vv. 17-19).

Il nostro testo non riporta l’obiezione iniziale che Geremia pone alla scelta di Dio:
dichiara di essere troppo giovane (Geremia forse non ha ancora vent’anni), cioè inesperto,
per sostenere il peso del compito affidatogli;
tuttavia il Signore gli garantisce la sua vicinanza e, toccando con la mano la sua bocca,
pone le sue parole sulle labbra del prescelto (1,6-10).

Seguono la visione del ramo di mandorlo,
a dimostrazione che il Signore vigila sulla sua parola perché si compia (1,11-12),
e della pentola bollente inclinata verso settentrione (1,13-15),
che vaticina l’imminenza del pericolo di un’invasione dal nord.

Geremia è costituito come portavoce del giudizio divino contro il popolo di Giuda
perché ha voltato le spalle al Signore e ha scelto di servire altre divinità.

Chi è Geremia

Geremia è nativo di Anatot, un villaggio a sei chilometri da Gerusalemme.
Suo padre, Chelkia, è sacerdote.

Ma, secondo una tesi che può vantare solide pezze d’appoggio,
la sua famiglia è da tre secoli destituita dalla funzioni sacerdotali.
Su di essa, infatti, penderebbe la maledizione,
perché discendente del prete Ebiatar,
colpevole di complotto contro Salomone (1 Re 2,26-27).
Per questa colpa sarebbe stata relegata ad Anatot, dove avrebbe conservato
la dignità sacerdotale senza poterla esercitare (una specie di «sospensione a divinis»).

Quindi, una famiglia diversa, «messa a parte». «Conosciuta» come maledetta.

La vocazione di Geremia

In questo contesto, assumono un profondo significato le parole della chiamata di Geremia.
Dio lo ha «consacrato», ossia messo a parte.
E lo ha «conosciuto» ancora prima che fosse formato nel grembo di sua madre.

Ricordiamo che il verbo ebraico «conoscere»,
indica un rapporto profondo, intimo, tra due persone. Equivale ad «amare».

Di conseguenza con l’uso di questo verbo ebraico
si sottolinea che la vita di Geremia appartiene da sempre a Dio:
è scelto dal Signore, plasmato dalla sua parola, chiamato all’esistenza
in vista di una missione che lo consacra come profeta delle nazioni.

Dunque, «conosciuto» e «messo a parte» da Dio.
Ma in senso diametralmente opposto
a quello attuato fino allora nei suoi confronti dalla gente del suo paese.
«Conosciuto», non per essere disprezzato, ma in quanto oggetto d’amore.
«Messo a parte», cioè separato,
non più nel senso della scomunica e della discriminazione,
ma in vista di una missione assai ampia.

Ancora sulla vocazione di Geremia

L’elezione di Geremia (espressa dal verbo «conoscere»
nel senso di “scegliere”, “amare”)
è un fatto così gratuito, da precedere la stessa esistenza.
Dio ha pensato al suo profeta da sempre.
L’espressione «dal seno materno» è un semitismo che vuol dire dalla nascita;
compare solo altre tre volte nella Bibbia, per il misterioso Servo di Yhwh (Is 49,5),
per Giovanni Battista (Lc 1,41-42) e per Paolo (Gal 1,15-16).

La vocazione è prima di tutto un atto di amore di Dio
che chiama («vocazione» dal latino vocare cioè chiamare),
e solo in seguito risposta dell’uomo.

All’elezione segue la consacrazione,
equivalente, in questo caso, a una appropriazione divina.
Dio isola l’uomo da tutto il resto per conferirgli una dignità sacrale;
in altri termini, è come dire che Geremia sarà a tempo pieno per il Signore.

Infine, la chiamata destina il profeta «alle nazioni»,
strappandolo dal provincialismo del suo paese e del suo mondo
per immetterlo su circuiti internazionali.
Ciò si verifica sia con messaggi ad altre nazioni (cf. per esempio 25,14ss.),
sia in una storia che vede lui e la sua gente intrecciati con altri popoli.

L’invio di Geremia

Vano è il tentativo di Geremia di protestare la sua inadeguatezza
di fronte alla complessità del compito richiestogli (1,6):
la sua missione è urgente, e richiede da parte sua prontezza.
L’atto di cingersi la veste ai fianchi evoca la modalità
con la quale gli Israeliti hanno consumato la prima Pasqua
nella notte dell’esodo (Es 12,11):
bisogna essere solleciti ad accogliere la voce del Signore
per compiere il suo volere, confidando esclusivamente in lui,
senza temere le minacce degli oppositori.

Nella seconda parte del nostro brano (vv. 17-18)
Dio annuncia a Geremia ciò che gli accadrà,
offrendoci uno spaccato della missione del profeta.
Non lo illude, non gli promette una vita facile.
Sarà -dice – come un soldato braccato dai nemici,
come una fortezza assediata da un esercito.

Geremia, il profeta più tragico e umano

Geremia, fedele alla vocazione ricevuta, svolgerà la propria missione
in contrasto non solo con i suoi compaesani di Anatot,
ma anche con gli abitanti di Gerusalemme.
Dapprima ignorato, poi deriso, isolato, perseguitato, minacciato,
insultato, percosso, denunciato perfino da parenti e amici.
E tutto perché vorrebbero fargli dire ciò che loro desiderano udire
e che lui non può dire.

Vorrebbero essere rassicurati dalla sua parola.
Invece Geremia non fa che seminare inquietudini e previsioni fosche.
Dalla sua bocca non escono discorsi rassicuranti, ma annunci di catastrofi.

Si vorrebbe garantisse che tutto va bene.
E lui si ostina a predicare che si sta andando verso la rovina.
Vorrebbero ottenere una specie di benedizione sulle scelte e alleanza politiche.
E il profeta li avverte brutalmente che la storia cammina in tutt’altra direzione
e loro non sanno coglierne il senso.

Geremia fa tutto ciò non certo con piacere.
Al contrario, a prezzo di una dolorosissima,
sempre sanguinante lacerazione interna.
Egli resta innamorato della propria terra e della propria città.
In fondo, è un poeta, delicato, pieno di tenerezza.
Per pronunciare quelle parole terribili
deve far violenza al cuore e ai sentimenti.

Ma non può comportarsi diversamente.
La Parola di Dio lo obbliga a dire ciò che lui stesso non vorrebbe dire.
In lui c’è tensione tra intelligenza e cuore,
tra dovere e desiderio, tra lucidità e sentimento.
La sua profezia non nasce dal suo interno.
Non è certo la voce della sua natura. Viene da altrove…

I compaesani non riescono ad afferrare questo dramma intimo,
a cogliere l’altrove di quella Parola.
E si accaniscono crudelmente contro il profeta,
colpevole di tradire i loro desideri e dissipare le loro pervicaci illusioni.

La promessa di Dio

Per la delicatezza del compito, il Signore non abbandonerà Geremia
e lo renderà forte, come una città impenetrabile;
saldo, come una muraglia insormontabile;
inamovibile, come una colonna di ferro.

Il nostro brano si conclude con parole di speranza e di conforto.
Il Signore annuncia a Geremia:
«Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti» (v. 19).
Colui che si è rivelato a Mosè come «Io sono» (Es 3,14)
e ha condotto il suo popolo schiavo in Egitto verso la Terra promessa,
ora si manifesta a Geremia, dichiarando: «Io sono con te».
Si schiera dalla parte del profeta per salvarlo dagli agguati e delle persecuzioni.

Foto: Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Geremia lamenta la distruzione di Gerusalemme, olio su tavola (58,3X46,6), 1630, Rijksmuseum, Amsterdam / it.wikipedia.org

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