Terza caduta

Terza caduta. Nona stazione. Un gomitolo di fili di ferro
Via Crucis del malato – Cammino di speranza

Terza caduta. Non solo gli altri non mi capiscono.
Ma sono anch’io che non comprendo più nulla di ciò che mi accade.

A dire il vero, le solide certezze di prima si sono dissolte.
Infatti, ciò che mi sosteneva, mi dava conforto,
adesso appare fragile, inconsistente,
né adatto alla nuova situazione.

Perfino la preghiera mi sembra non serva a niente,
non risolva nulla.
Non ne provo alcun gusto né voglia,
soprattutto mi riesce difficile,
inoltre mi lascia deluso.

Le ragioni che valevano quando stavo bene,
adesso non tengono più.
La speranza luminosa dei tempi belli è impallidita,
si è fatta smunta, striminzita,
e viene sopraffatta dallo sconforto, dall’angoscia,
addirittura da qualcosa che assomiglia alla disperazione.

Ancora. Si infittisce il buio attorno a me
e avverto un gran gelo «dentro».

Potrei dire, al pari di Giobbe:
«Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento!» (Gb 3,26).

Terza caduta. È la caduta più temibile,
perché è la caduta nel non-senso.

Ho oltretutto la vista annebbiata,
sto smarrendo l’orientamento.

In qualche raro squarcio di chiarezza
ricavo l’impressione
che la sofferenza sia una specie di riconsacrazione del mio essere.

Ma, subito dopo,
nei momenti di crisi,
piombo nel sospetto
che il dolore sia una sconsacrazione,
una orrenda profanazione di tutta la persona,
non soltanto del corpo.

Conseguentemente tengo fra le mani un gomitolo arruffato
e vorrei rintracciare il filo conduttore
in modo da sbrogliare quella matassa aggrovigliata.

Ma più traffico coi pensieri,
armeggio con quei fili scarduffati,
più aumenta la confusione.

Insomma, il guaio è che il mio gomitolo non è di lana,
ma sembra intorcinato di fili di ferro.
E le punte mi feriscono le dita,
si conficcano nel cervello,
nel cuore, nella volontà.

A dire la verità Dio talvolta fa capolino sul mio orizzonte cupo.
Ma solo per pochi attimi di grazia,
come un lampo.
Poi sembra si diverta a nascondersi.

Un gioco quantomeno crudele.
E io Lo tempesto coi miei ossessivi perché,
Gli sgrano tutta la litania dei miei interrogativi,
Lo incalzo con le proteste.

Lui, però, si guarda bene dal rispondere,
non si degna di darmi una seppur minuscola spiegazione.
Non sembra per la verità essere sfiorato dai miei crucci.

Pare inoltre non voler accettare la lotta che ingaggio con Lui.
Rifiuta pertanto la contesa.
Si sottrae, ecco tutto.

Io vorrei discutere, ragionare.
E Lui non ci sta.

Allora Lo aggredisco con violenza.
E Lui mi porge…
l‘altra guancia del silenzio.

Qualche volta ricorro ai libri,
alcuni me li consigliano.
Ma li trovo insulsi,
mi provocano perfino la nausea.

Niente mi dice niente.
Tutto mi sembra allora assurdo, scombinato, inutile.

Che significato ha quindi quello che sto vivendo,
l’immobilità, la paura,
l’intontimento, lo sconforto,
i dolori del corpo
e le pene dell’anima?

Inoltre che valore ha questa giornata vuota, inconcludente?
E ancora: che sbocco positivo può avere un’esperienza amara come questa?

Terza caduta. La nuova caduta tuttavia può rappresentare l’occasione
per abbandonare il gomitolo dei miei ragionamenti
su cui mi sto accanendo,
e in particolare recuperare il senso dell’adorazione.

Adorazione che è soprattutto sofferta accettazione di un mistero
che mi supera,
respingendo le risposte affrettate,
le spiegazioni di comodo,
così pure le false sicurezze,
le diagnosi superficiali,
e anche le soluzioni provvisorie che,
più che risolvere, nascondono i problemi.

Soprattutto, liquidando le formule rassicuranti
che danno un sollievo immediato,
ma poi aggravano la ferita.

Devo rendermi conto allora della necessità di pregare nel buio,
nell’aridità,
sperduto in mezzo alle nebbie gelide del non-senso.

Prima di tutto senza fervore,
poi senza soddisfazioni immediate,
infine senza risultati evidenti.

Devo convincermi sostanzialmente che avere la fede
non significa tenere tutte le risposte,
disporre di soluzioni pronte all’uso.

Fede non è essere immersi nella luce,
ma capacità di attraversare la notte,
senza neppure la più pallida stella,
credendo nella luce che verrà
se e come e quando verrà.

Devo accettare seriamente che la speranza nasca dalla desolazione,
perfino dalla disperazione,
spunti in mezzo alle rovine,
fiorisca nel deserto.

Infine devo imparare a rialzarmi
scorticandomi le ginocchia e le mani
in un interminabile esercizio di contatto
con le asperità del terreno.

Preghiera

Almeno questo l’ho imparato.
Tu non sei un Dio fornitore di risposte,
ma di silenzi prolungati.

Sei un Dio che si fa capire – almeno in parte –
nell’incomprensibilità.

Tu non rispondi subito ai miei interrogativi,
perché vuoi condurmi a quel momento,
stabilito da Te,
in cui le spiegazioni saranno superflue.

Signore,
Ti affido il mio gomitolo arruffato.
Io non ne ricavo niente.

Intuisco che provvederai Tu a sbrogliarlo,
anzi l’hai già fatto.

E, alla fine di quest’esperienza,
mi restituirai,
al posto del gomitolo aggrovigliato,
un disegno compiuto, coerente, armonioso,
dal Tuo punto di vista.

Anche coi fili di ferro appuntiti,
contorti e disordinati,
Tu ricavi qualcosa di bello e di buono.
Importante è che mi fidi di Te.

Sono sicuro che,
quando mi rialzerò,
sorrideremo insieme.

Signore,
concedimi l’intelligenza
che mi permette di capire… dopo.

Amen.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari,
Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 40-44.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

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