Vestiti

Vestiti. Decima stazione. Non solo i vestiti…
Via Crucis del malato – Cammino di speranza

Vestiti. È stato, senz’altro, il distacco più doloroso.
Avevo infatti l’impressione di essere costretto
a strapparmi dalla pelle i vestiti, e non solo quelli.
Una parte essenziale di me cadeva a brandelli.
Il pigiama che dovevo indossare
diventava di conseguenza il segno di riconoscimento della mia nuova identità:
quella di malato.

Il pigiama era la divisa
che da quel momento mi faceva riconoscere da tutti
come appartenente a un altro mondo,
notevolmente distinto,
separato dal mondo dei sani,
delle persone normali,
di quelli che lavorano.

Io potevo circolare,
grazie o a causa del pigiama,
solo in spazi ristretti, vigilati,
e non dovevo di conseguenza oltrepassare certi confini.
In altre parole: non ero più libero.

Con gli abiti ammucchiati alla rinfusa nell’armadietto,
entravo in una condizione diversa.
Veniva in una parola sospeso il corso della mia esistenza.
Mi sentivo infatti come una macchina
depositata in un’officina di riparazioni.

Era quindi giocoforza fermarmi,
essere a disposizione,
acquistare passività.

A riparazione avvenuta,
se tutto avesse funzionato per il verso giusto,
avrei ripreso il mio fagotto
e sarei rientrato nel flusso della circolazione.

Si dice, in verità, che l’abito non faccia il monaco.
Sicuramente il pigiama,
o la vestaglia,
fa il malato.

Comunque il vestito non è mai un accessorio insignificante.
Il vestito – l’ho imparato anche leggendo la Bibbia –
è simbolo della dignità,
del valore di un individuo.

Di fatto io,
dopo quella scarnificante svestizione,
mi ritrovo non più persona, ma pupazzo,
marionetta le cui scelte e i cui movimenti
sono determinati dai fili che stanno in mano ad altri.

Manichino girato da tutti i lati,
trasferito qua e là,
a seconda delle necessità.

Al momento ho addosso il pigiama o la vestaglia;
ma è peggio che fossi nudo:
esposto, nella mia miseria, all’osservazione,
al compatimento,
e perfino alla curiosità altrui.

Ho perso il nome,
vengo abitualmente riconosciuto come numero.
Ho sentito dire poco fa da un’infermiera:
«Dobbiamo preparare il 24 per l’esame del tubo digerente….».

La mia storia personale è stata perciò annullata
e sostituita con i dati della cartella clinica.
Sono importante – seppure lo sono – solo come malattia.
Nessuno sa niente di me.

Di conseguenza sono ridotto a «caso», e mi conoscono e mi prendono
in considerazione – quando mi prendono in considerazione –
unicamente perché rientro in quel caso.

In certi momenti ho la sensazione
di non possedere più neppure un volto.
Qualche medico non mi guarda in faccia,
ma si limita ad abbassare gli occhi sulla parte malata.
Gli interessa esclusivamente il guasto,
non il mio essere.

E l’umiliazione più grave è quella di non essere più soggetto,
ma venire trattato come oggetto:
in effetti gli altri si occupano di me,
fanno di me quello che vogliono,
decidono al posto mio,
impongono orari e fissano appuntamenti
senza consultarmi.

Devo fidarmi ciecamente,
non è necessario che sappia,
venga interpellato,
manifesti il mio punto di vista.

«Non ci pensi»,
è infatti la frase che mi sento ripetere frequentemente.

Spesso mi chiamano per una visita,
un esame, un controllo,
senza preoccuparsi di avvertirmi prima
e spiegarmi di cosa si tratta.

Oppure mi avvertono,
salvo poi a dimenticarsi di chiamarmi.
E, se c’è stato un intoppo,
un mutamento di programma,
non si preoccupano per di più di informarmi.

Ma ora è più importante che recuperi il fagotto dei vestiti
depositato nell’armadietto.

Devo infatti rivestirmi in fretta.
All’interno di me stesso, s’intende.
Ancora: bisogna che ritorni libero, subito.
Ossia occorre che indossi, «dentro», la dignità,
la responsabilità, l’immagine e la somiglianza di Dio.

È necessario infatti che mi riappropri del gioiello più prezioso
e non lo deponga mai,
né lo dia in consegna a nessuno
neppure quando mi fanno togliere
la catenella o l’orologio nella sala raggi,
il mio valore di persona.

Esemplare unico,
insostituibile,
non ripetibile,
anche se attualmente piuttosto malconcio.

No. La libertà non me la mettono a disposizione
tra gli arredi e le dotazioni di una camera d’ospedale.

Ma anche in una stanza d’ospedale
può abitare un individuo libero.

Preghiera

«…Spogliò se stesso» (Fil 2,7).
La spoliazione della Passione
non è altro che la conseguenza inevitabile
di quella spoliazione precedente,
volontaria, che hai accettato Tu.

E così ti sei esposto al disprezzo,
alla derisione,
alle beffe dei carnefici e della ciurmaglia.

Da parte mia, sovente,
col pigiama al posto dei vestiti,
vengo esposto all’indifferenza,
alle umiliazioni,
alla cancellazione del volto e del nome.

Signore,
forse questa è la povertà più difficile alla quale mi chiami.

Voglio viverla con Te.
Riscoprire, in questa condizione,
il senso della prima beatitudine:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,2).

Signore,
rivestimi, coprimi col tuo sguardo,
perché, nella mia nudità,
spoglia da tutte le apparenze,
le illusioni e le false protezioni,
mi ritrovi vero.

Amen.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari,
Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 45-49.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

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