Gesù muore in croce. Dodicesima stazione. Dove si è nascosto Dio?
Via Crucis del malato – Cammino di speranza
Gesù muore in croce. Mi impressiona soprattutto quel lamento straziante:
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).
Mi ritrovo facilmente in questa esperienza
del sentirsi dimenticato,
del venir meno di certe presenze su cui contavi,
soprattutto di quella Presenza insostituibile.
È la desolazione totale,
il ritrovarsi ghermiti dagli artigli del Male
senza che tuttavia nessuno intervenga,
il venir inghiottiti dalla notte
senza riuscire ad intravvedere neppure un barlume.
Non c’è quindi da stupire che a mezzogiorno
siano calate le tenebre su quel colle
e si sia oscurata addirittura la terra intera (Lc 23,44).
Il sole si eclissa,
tutto scompare,
ogni cosa viene inghiottita nel ventre del buio.
Finora mi avevano insegnato una preghiera composta,
ammodo,
costruita secondo le regole della devozione cristiana,
con le parole ben allineate,
gli aggettivi appropriati,
i sentimenti giusti che dovrei indossare.
Adesso, attraverso la malattia,
mi accorgo che certe preghiere sono veramente artificiali,
non reggono alla prova del dolore disumano,
appaiono inservibili,
perfino irritanti.
Quando non se ne può più,
ci si sente venir meno,
si avverte addosso l’alito gelido della Morte,
allora non si mormora devotamente qualche giaculatoria:
ma si urla.
Gesù muore in croce. Gesù ha lanciato un grido terrificante,
prima di morire (Mc 15,37).
Scopro così un modo diverso di pregare,
fatto di silenzio,
ma anche di dissonanze,
lamenti, proteste,
rimproveri mossi a Dio.
Sì, la preghiera è talvolta combattimento con Dio
(esistono parecchi esempi al riguardo nella Bibbia).
Lui mette alla prova me,
ma pure io Lo voglio mettere alla prova.
D’altra parte, l’obbedienza, la resa pacificante,
l’accettazione serena della Sua volontà,
sono possibili soltanto
quando uno ha tentato ostinatamente di resisterGli.
E anche Lui cede esclusivamente
dopo aver a lungo opposto una resistenza tenace,
fatta di mutismo, sordità,
indifferenza, lontananza.
Insomma,
si conosce la pienezza
unicamente dopo aver subìto la disfatta ad opera di Dio,
non senza, prima, aver combattuto
accanitamente contro di Lui.
Gesù muore in croce. Ma in questa «stazione»
c’è pure un altro elemento che mi tocca da vicino:
il perdono accordato ai nemici.
«Padre, perdonali,
perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Ecco, il tempo della malattia è il tempo della purificazione.
Purificazione del cuore, prima di tutto.
Bisogna depurarlo da ogni scoria velenosa di risentimenti,
astio, meschinità, cattiveria,
desiderio di rivalsa,
rancori, inimicizia.
L’esperienza del dolore offre la possibilità
di rischiarare lo sguardo,
snebbiarlo,
ritrovare la prospettiva giusta di fronte alle cose.
Allora ci sono parecchie cancellazioni da fare,
numerose correzioni da apportare sui nostri taccuini.
Ci si accorge,
alla scuola severa del dolore,
quanto sia stolto dare importanza a certe sciocchezze,
coltivare certi ricordi amari,
mantenere certe impuntature,
rimasticare i torti subiti,
le offese, gli sgarbi.
Voce del verbo dimenticare.
Nella variante di rimettere i debiti.
Si tratta di perdonare a chi ci ha fatto del male,
ci ha procurato guai,
perché non sapeva quello che faceva,
ma pure a chi, purtroppo, sapeva.
La prova della sofferenza diventa inutile
solo quando non ci rende più generosi,
magnanimi,
capaci di capire e compatire.
Il Dio che sembra averci abbandonato
non riesce a resistere a lungo a figli
che si sforzano di imitarLo
nella grandezza della misericordia e del perdono.
È questo il Suo punto debole.
Preghiera
Gesù muore in croce. La chiave di tutto sta in quel «mio».
Gesù ha protestato nei confronti del Dio assente,
che lo aveva abbandonato,
chiamandolo, nonostante tutto, «mio».
Padre,
anch’io voglio che Tu rimanga il «mio» Dio
anche quando non Ti fai sentire,
non rispondi,
sei lontano,
insensibile ai miei lamenti.
Pure quando non intervieni,
non mi esaudisci come vorrei.
Quel «mio» è il laccio che Ti tendo,
al fine di superare la distanza,
il silenzio, l’assenza,
per scovarTi là dove Ti sei nascosto.
Ti allontani,
mi volti le spalle,
sparisci dal mio orizzonte,
mi lasci intendere che non vuoi più saperne di me,
e io Ti rincorro con quell’aggettivo possessivo: «mio».
E so che,
anche se precipito in un vortice pauroso,
finirò per cadere tra le Tue braccia di Padre.
Signore,
aiutami a vivere la malattia
come l’occasione favorevole per il perdono e la riconciliazione.
Anche con me stesso, naturalmente.
Posso dirTi sottovoce
(tanto sono sicuro che non Ti scandalizzi,
non mi accusi di eresia)
che anch’io Ti perdono?
Sì, Ti perdono sia le distrazioni,
come pure le assenze, le dimenticanze,
le non spiegazioni e le mancate carezze.
E soprattutto il fatto
di non essere il Dio che avevo immaginato.
Amen.
Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari,
Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 54-57.
Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto