Plinio Acquabona

Plinio Acquabona

Vi è più «fare» nella politica o nella poesia? L’antica e nuova operazione della «poiesis» non ha cessato mai di riproporsi come cifra che, interpretando il mondo, ne sa spalancare le contraddittorie ragioni e il tormento. Quando poi il tempo è tramato di angosciose incertezze come il presente, una tale operazione, purché tesa alla verità, ha più forza di costruire per gli uomini che un’assemblea di voci soffocate dai luoghi comuni dello stinto dire politico.

A ben guardare avviene anche oggi – come o forse più di sempre – che lo stesso strumento, la parola, sia dal fare poetico teso alla ricerca e dal fare politico manipolato per l’inganno. Sicché non pare azzardato rilevare che la parola poetica è in grado di assumersi quella responsabilità che il discorso politico e quello pragmatico eludono o per intenzione di dissolvere o per impotenza a costruire.

Plinio Acquabona, che a una tale tensione di assoluto rigore costruttivo si è votato dall’apertura del suo laboratorio poetico, non a caso si è sentito consonare con quel Dylan Thomas per il quale poesia è sempre stata «tentativo di esprimere il vertice dell’esperienza umana» e le parole poetiche sono state «eterne azioni». Queste sue più recenti liriche («Il punto solidale», Vicenza, La Locusta, 1977) non sono perciò una sorpresa per chi era già attento all’itinerario silenzioso del poeta e drammaturgo anconetano; ma per gli altri, si dispongono con l’intransigenza di una perentoria rivelazione.

S’incontra una dura lezione umana all’interno di questo laboratorio in cui si fanno reagire senza intervalli gli elementi in urto dell’esistenza, perché da essi possa esprimersi il distillato definitivo. A Plinio Acquabona non è mai bastato trovare uno o tanti dei possibili sensi del vivere, o adombrare ipotesi precarie; ha detestato sprecare esperimenti per destinarne gli esiti al naufragio del consenso. Le ultime liriche si sono fatte più scabre eppure sempre più calibrate: perfino l’amarezza dell’ironia ne è stata allontanata come un rischio di evasione dalla stretta di secche immagini che non consentono riposi o abbandoni. Come le rupi della sua città. Nella spinta che si è impressa, la poesia di Plinio Acquabona sfida la propria condizione di clandestinità e di esilio pur di abbordare la verità che componga le antinomie, magari nell’esito bruciante di una fede che distrugga, insieme con l’attesa e l’ansia del tempo, anche la speranza e la gioia.

Così il poeta, proteso all’eterno, diventa inopportuno al tempo: «come uno sguardo di diamante» incide le convenzioni, scardina gli schemi della convivenza, si ripropone fastidiosamente a logorare i giorni, «punto d’usura» d’ogni regime etico e politico. Voce che non si stanca di dissonare dalla falsa positività dei valori correnti. Ormai corroso dagli storicismi, questo nostro tempo sospeso appare troppo analitico perché possa svincolarsi dal racket del «profilo mortale» che l’ha irretito: «immondo Golia» per il quale unica fionda di Davide è la spietata volontà del vero.

Fabio Ciceroni, «Liriche senza lirismi di Acquabona», in “Avvenire”, giovedì 16 marzo 1978, p. 9.

Foto: Copertina de «Il punto solidale» di Plinio Acquabona / ibs.it

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