Lc 24-13-35

Lc 24-13-35 – III Domenica di Pasqua – Anno A

 

Bellezza e difficoltà del testo

Lc 24-13-35 – Il racconto dei discepoli di Emmaus
è una delle pagine più belle dei Vangeli
ed è esclusiva del Vangelo secondo Luca.
Introduce in un mondo celestiale, dove il sogno,
invece di dissolversi, si tramuta in realtà.

Dopo questa prima impressione incantevole,
sorgono però perplessità e interrogativi.

Dove si trova Emmaus?
C’era, sì, ma a trenta chilometri da Gerusalemme,
non a una decina come dice il testo sacro (v. 13).

Alcuni manoscritti antichi,
probabilmente proprio per ovviare a questa difficoltà,
parlano di centosessanta stadi
(una trentina di chilometri),
ma così ne creano un’altra:
trasformano i due discepoli in maratoneti.

È anche inverosimile che, dopo aver udito
che era accaduto qualcosa di straordinario (vv. 21-24),
i due siano partiti senza aver prima verificato
ciò che poteva essere realmente successo.

Come mai non riuscivano
a riconoscere Gesù nel viandante?
Va notato che il testo non dice che Gesù
si era dissimulato sotto false sembianze,
ma che «i loro occhi erano impediti
a riconoscerlo» (v. 16), e sarà importante
stabilire la ragione di questa cecità.

Perché, infine, non ci viene detto il nome
anche del secondo discepolo?

***

Lc 24-13-35 – Queste sono solo alcune
delle difficoltà sollevate da
un’interpretazione letterale del testo.
Tuttavia alcuni indizi ci orientano
verso una lettura meno superficiale.

Come non notare, ad esempio che la frase
«Quando fu a tavola con loro, prese il pane,
recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro»
(v. 30), richiama in modo esplicito
la celebrazione dell’eucaristia?

E prima di sedersi a tavola,
il misterioso viandante presiede anche
a una solenne liturgia della Parola
con le sue tre letture («E cominciando
da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro
in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui»)
(v. 27),

e la sua brava omelia («Non ardeva forse
in noi il nostro cuore mentre egli conversava
con noi lungo la via, quando ci spiegava
le Scritture?» (v. 32).
Insomma ha officiato
una liturgia in piena regola.

Prima ancora: la frase: «Non bisognava
che il Cristo patisse queste sofferenze
per entrare nella sua gloria?» (v. 26),
è la prova inoppugnabile che
colui che sta parlando è il Gesù
già asceso al cielo.

Questa situazione, più che a quella
dei due discepoli di Emmaus,
assomiglia a quella dei cristiani
delle comunità di Luca.
Proviamo a ricostruirla.

***

Lc 24-13-35 – Siamo in Asia Minore
negli anni 80-90.

Quasi tutti i testimoni del Risorto
sono ormai scomparsi e i cristiani
della terza generazione si chiedono:
sarà possibile per noi incontrare il Risorto?

Come attestare che egli è vivo
se non lo abbiamo mai visto con i nostri occhi,
né toccato con le nostre mani,
né mai ci siamo seduti a mensa con lui?

Saremo indotti a credere solo a ciò
che altri ci hanno raccontato,
come accade nei tribunali dove i giudici
si fidano di testimoni attendibili?
Questa però non può essere chiamata
una scelta di fede, ma è la conclusione
di un ragionamento di buon senso.

Proviamo a rileggere il racconto di Luca
come una risposta agli aneliti
e alle attese di questi cristiani.

Iniziamo dal nome

Lc 24-13-35 – Uno dei due discepoli
si chiama Cleopa, di cui, per la verità,
non sono riuscito ad appurare niente
se non che il nostro testo lo chiama così,
e i dizionari biblici lo chiamano invece Cleofa.

L’altro discepolo è senza nome. Perché?
Potrebbe essere l’invito rivolto a ogni lettore
a inserire il proprio nome, un invito
a percorrere insieme a Cleopa
il cammino che porta a riconoscere il Risorto
presente là dove due sono riuniti nel suo nome.

La tristezza dei discepoli

Lc 24-13-35 – I due sono tristi:
hanno visto crollare i loro sogni,
fallire i loro progetti.
Si attendevano un messia glorioso,
un re potente e vincitore
e si sono trovati davanti uno sconfitto.

È la storia dei cristiani delle comunità
di Luca. Vedono trionfare le opere della morte,
i malvagi hanno la meglio sui buoni
o presunti tali.

È la nostra storia.

Succede quando dobbiamo ammettere
che la furbizia prevale sull’onestà;
quando siamo costretti a prendere atto
che la menzogna diviene la verità ufficiale,
imposta da chi ha più potere;
quando vediamo i profeti
messi a tacere o essere uccisi.

Anche noi ci fermiamo, tristi, rassegnati
di fronte a una realtà ineluttabile,
costretti ad ammettere che il mondo nuovo
annunciato da Gesù
forse non si realizzerà mai.

Chi pensa in questo modo
scopre solo l’aspetto esteriore,
l’evento storicamente verificabile
della vita di Gesù,
ma non giunge alla fede in lui,
perché non crede nella sua risurrezione,
che non può essere constatata e dimostrata.

La conseguenza
di questa conoscenza incompleta
è la tristezza.

Come si arriva
a questa situazione disperata?

Lc 24-13-35 – I due discepoli
hanno certamente delle responsabilità;
hanno commesso errori.

Anzitutto, hanno abbandonato
la comunità, il gruppo di coloro
che hanno continuato a cercare
una risposta a quanto era accaduto.
Hanno preferito andarsene da soli,
convinti che a certi drammi
nessuno saprà mai dare un senso.

Non hanno verificato se l’esperienza
fatta dalle donne
poteva essere illuminante anche per loro.

Così si comportano molti cristiani oggi:
di fronte alle difficoltà e alle divisioni
che ci sono nella Chiesa,
alcuni abbandonano la loro comunità;

altri, quasi per principio, rifiutano le risposte
che vengono dalla fede,
non verificano nemmeno se possono avere
una logica e un senso.

***

Lc 24-13-35 – Gesù, però,
non abbandona gli uomini
che scelgono le strade
che conducono alla tristezza.
Egli si fa loro compagno di viaggio.

Come sempre accade,
il Risorto non è riconoscibile
(qualcuno crede di vedere un fantasma,
Maria di Magdala
lo scambia per un giardiniere,
sul lago è considerato un abile pescatore).

Non si tratta di miracoli.
È invece un modo di presentare
la situazione nuova di colui
che è entrato nella gloria di Dio.

La vita dei risorti non è
un prolungamento migliorato
della vita presente
e i nostri occhi non possono coglierla.

Ecco perché gli evangelisti ci fanno capire
che Gesù era lui, ma non era più lo stesso.

Era il Gesù che avevano toccato,
con il quale avevano mangiato e bevuto,
era colui che era morto crocifisso
(«Guardate le mie mani e i miei piedi:
sono io!») (Lc 24,39),
ma era completamente diverso.

***

Lc 24-13-35 – Come arrivano
i due di Emmaus a scoprire
che Gesù crocifisso e morto,
è il Messia?
Come possono capire
che la vita nasce dalla morte?

Il cammino che il Risorto fa loro percorrere
è quello delle Scritture: è la Parola di Dio
che svela il mistero.

Non avendo capito la Scrittura,
i due discepoli ragionano da uomini,
non vedono ciò che è accaduto
con lo sguardo di Dio,
per questo Gesù li ha richiamati:

«Stolti e lenti di cuore nel credere
alla parola dei profeti!
Non bisognava che il Cristo
passasse attraverso il dono della vita,
per entrare nella sua gloria?» (v. 25).

Il cammino della croce è inconcepibile
e assurdo per gli uomini;
solo chi legge la Scrittura
scopre che Dio è tanto grande
da saper ricavare
dal maggior crimine degli uomini
il suo capolavoro di salvezza.

***

Lc 24-13-35 – Un altro modo
di scoprire il Risorto
è la celebrazione liturgica domenicale.

Quando i due discepoli si sedettero a tavola
Gesù «prese il pane, recitò la benedizione,
lo spezzò e lo diede loro» (v. 30).

In questo versetto sono presenti
tutti gli elementi della celebrazione eucaristica:
c’è l’entrata del celebrante (Gesù
che si unisce ai due lungo la strada),
poi la liturgia della Parola con l’omelia,
infine, «lo spezzare il pane».

Solo al momento della celebrazione eucaristica
gli occhi si aprono e i discepoli si rendono conto
che il Risorto è in mezzo a loro.

Con il racconto del Vangelo di oggi,
Luca vuol ricordarci che, grazie all’azione
dello Spirito Santo,
possiamo incontrare sempre il Risorto
nell’Eucaristia e nella sua Parola,
e lì fare memoria della morte di Gesù
come dono per la vita del mondo.

***

Lc 24-13-35 – Mi sia permesso,
nonostante la tirannia del tempo,
due emozioni-conclusioni
che mi ha lasciato questo Vangelo.

La prima riguarda tutti noi ed è questa:
Gesù parla lungo la strada per Emmaus
e agisce in una locanda.
Due luoghi anonimi, luoghi di passaggio,
di tutti e di nessuno.

Quando ci muoviamo sulle nostre strade
mai una volta che ci prenda il sospetto
che Dio possa fare strada con noi.
E se ci capita di sostare in una trattoria
o ristorante, l’ultimo pensiero
è che il Signore
possa sedersi a tavola con noi.

L’abbiamo lasciato nelle nostre chiese,
sulle strade del mondo pensiamo di essere soli.

Ma il Vangelo – ecco la novità – ci fa capire
che pensando così sbagliamo tutto.
Da quando il velo del tempio
è stato squarciato (è uno dei prodigi
che hanno segnato la morte di Gesù)
non c’è spazio sacro
che possa tenere prigioniero il Signore.

Il Signore è viandante su ogni strada,
compagno di ogni mensa
e soprattutto di ogni uomo.
E questa presenza non è certo
per toglierci spazio o libertà,
ma per amarci, dandoci perdono e aiuto.

***

Lc 24-13-35 – La seconda conclusione-emozione
mi riguarda direttamente.
«Non ardeva forse in noi il nostro cuore
mentre egli conversava con noi lungo la via,
quando ci spiegava le Scritture?» (v. 32).

Fossi capace di spiegare,
far comprendere la Parola di Dio
in modo da attizzare almeno una scintilla
nel cuore, accendere un desiderio,
risvegliare una nostalgia, incoraggiare.

È un impegno che da diversi anni in qua
cerco di perseguire,
anche se sono cosciente
dei miei grossi limiti:
tempo e soprattutto coerenza.

Foto: Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio,
«Cena in Emmaus», 1601-1602, olio su tela
(139 x 195 cm), National Gallery, Londra /
it.wikipedia.org

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