Elia

Elia

L’archeologia conferma che il regno di Acab (874-853 a.C.) fu uno dei più prosperi di Israele. Acab fu un sovrano abile e accorto, fortificò le città di Meghiddo e di Hazor dotandole di porte monumentali, mura poderose, ampi magazzini e impressionanti sistemi per l’approvvigionamento d’acqua che rimangono ancora oggi. Favorì il commercio, stipulò alleanze con i popoli vicini, costruì palazzi lussuosi, decorati con avori scolpiti secondo lo stile artistico egiziano.

Eppur su di lui la Bibbia pronuncia un giudizio severo: «Nessuno si mai venduto a fare il male agli occhi del Signore come Acab, istigato dalla propria moglie Gezabele. Commise molti abomini, seguendo gli idoli» (1 Re 22,25-26).

Gezabele era la giovane, tanto affascinante quanto perfida, figlia del re di Tiro. Era giunta in Samaria accompagnata da uno stuolo di profeti di Baal e Astarte e, con lusinghe e malie, aveva indotto il marito a erigere un tempio a queste divinità, adorate in Fenicia e ritenute dispensatrici di fecondità campi e negli animali.

Fu l’inizio, in Israele, della corruzioni religiosa, della dissolutezza morale, delle ingiustizie sociali che culminarono in crimini come l’uccisione di Nabot (1 Re 221) in pratiche orrende come i sacrifici umani (1 Re 16,34).

Inaspettatamente, ecco apparire sulla scena un uomo coraggioso e risoluto che osa sfidare Gezabele, la regina che è all’apice del potere e può disporre a piacimento del sigillo del re. È Elia, il profeta venuto da Tisbe, una città situata a oriente del Giordano. Le sue parole sono sferzanti, le sue denunce bruciano come fuoco (Sir 48,1). Minaccia, invoca castighi del cielo, compie prodigi: ordina alla pioggia di non irrorare la terra per tre anni; sfida i profeti di Baal sul monte Carmelo, li vince e ne compie un massacro (1 Re 18).

Alla fine, però, deve arrendersi. Gezabele è troppo forte e lo cerca ovunque per toglierlo di mezzo. Si sente solo, abbandonato da tutti, è convinto che tutto il popolo abbia tradito il Signore e abbia seguito Baal e Astarte.

Prima si nasconde, poi fugge verso sud; vuole raggiungere il monte di Dio, l’Oreb, conosciuto anche come Sinai, dove Mosè, quattrocento anni prima, ha incontrato il Signore.

Parte, ma la traversata del deserto è impegnativa e le difficoltà quasi insormontabili, resiste fin che può, ma poi, sfiduciato, si deve arrendere. È a questo punto che inizia la I Lettura di oggi.

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Elia si siede all’ombra di un ginepro e invoca la morte. Signore – implora – adesso basta! Per me è meglio morire. Io non sono migliore dei miei padri; se essi hanno fallito, non posso illudermi di riuscire io a spuntarla, le mie parole non avranno mai un impatto significativo sulla realtà sociale e politica e sulle scelte religiose del mio popolo (v. 4)

Il Signore gli fa trovare una focaccia e un orcio d’acqua.

Si noti bene: Dio non sottrae alla prova il suo profeta, non lo solleva dalla fatica, non lo dispensa dal duro viaggio, facendolo trasportare, miracolosamente, da un angelo. Il deserto deve essere attraversato e le difficoltà affrontate. Gli offre l’alimento necessario e questo basta.

La I Lettura conclude: «Con la forza datagli da quel cibo, Elia camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (v. 8).

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La vicenda di Elia è anche la nostra. Ci sono momenti in cui ci sentiamo, come Elia, intimamente delusi e non troviamo conforto neppure in Dio, nelle fede, nei fratelli della comunità.

C’è il peso della strada percorsa che si fa sentire nelle gambe e soprattutto “dentro”. Il peso dei conflitti, delle incoerenze, dei pettegolezzi, delle invidie, delle meschinità, dei fallimenti, delle persone (di certe persone…), di un ambiente meschino, di un’aria avvelenata, della ipocrisia e della falsità, della sfiducia.

Tutto ciò – e molto altro ancora – si accumula, si aggruma e, più che schiacciarti, ti intorpidisce, ti appanna la vista, ti svuota della tua sostanza, ti prosciuga le energie.

Il cammino della vita, allora, perde interesse. L’unico interesse che può presentarsi è ormai quello di rintracciare un posticino, un rifugio, dove adagiare la propria stanchezza.

Ciascuno di noi ha a disposizione un ginepro sotto cui distendere la propria sfinitezza e addormentarsi. Il ginepro della rassegnazione, delle abdicazioni, della mediocrità, della facilità, dell’indifferenza, della disaffezione.

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Qual è la risposta che il Signore dà alla stanchezza di Elia e alla nostra stanchezza?

Non è una risposta consolatoria, nonostante le apparenze. C’è, sì, un intervento che rivela la paterna preoccupazione di Dio per Elia, il quale si ritrova a portata di mano una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua.

Dio non ci esenta dal lavoro, non si sostituisce a noi; quando siamo stanchi non ci carica sulle spalle, ma ci indica il cammino da percorre e non ci lascia mancare il pane che ridona vigore.

Non dobbiamo pensare subito al pane eucaristico, del quale si dovrebbe parlare domenica prossima, che propone, però, le letture proprie della solennità dell’Assunzione di Maria al cielo. L’alimento che, in ogni circostanza della vita, dona forza e infonde coraggio è la Parola di Dio.

Quando ci si trova in difficoltà, quando si è demoralizzati e avviliti per ciò che accade a noi, nel mondo e nella Chiesa, forse ci sfoghiamo con qualche amico, andiamo a piangere sulle spalle di qualcuno, convinti di trovare aiuto e conforto. Dimentichiamo che il pane della Parola che dona luce, consolazione e speranza.

Fernando Armellini, «Ascoltarti è una festa». Anno B. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2003, pp. 444-445, con miei piccoli adattamenti e l’attualizzazione.

Foto: Juan Antonio de Frias y Escalante, «Un angelo sveglia il profeta Elia» / settemuse.it

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