Dio

Dio – Immacolata Concezione della beata vergine Maria – Gn 3,9-15.20 – C

Dio. Il secondo capitolo della Genesi è un festival di armonia: intima comunione di uomo e donna, sintonia tra uomo e creato, intesa perfetta con Dio. Poi tutto viene azzerato sotto la mannaia del peccato che frantuma ogni relazione, lasciando al suo posto un cumulo rovinoso di cocci. Il brano biblico, propostoci nella Prima Lettura di oggi, si muove quasi tutto nell’ombra di tale distruzione (vv. 9-14), accendendosi poi di speranza verso la fine, quando viene proclamata la vittoria sul serpente (v. 15) e quando, saltando alcuni versetti, si accenna a Eva, madre di tutti i viventi (v. 20).

Occorre precisare subito che il nostro brano non è il resoconto di un fatto accaduto all’inizio del mondo, ma una pagina di teologia, redatta con un linguaggio simbolico, e di conseguenza l’interesse non riguarda il «come» ma il «perché»: da dove veniamo, dove andiamo, quale senso abbia la nostra vita, come sia possibile il male che contamina la creazione, se il Creatore è infinitamente buono. E soprattutto: se vi sia ancora speranza di rimediare a tanto disastro.

Dio aveva fatto bene ogni cosa, il mondo era uscito «buono dalle sue mani».Per sette volte l’autore sacro ripete, come un ritornello: «E Dio vide che era buona» l’opera da lui realizzata.

C’era armonia fra l’uomo e Dio, armonia rappresentata dall’immagine squisita del Signore e dell’uomo che passeggiano nel giardino di Eden, accarezzati dalla brezza della sera (Gn 3,8).

C’era armonia fra l’uomo e la natura: il mondo era amato, rispettato e curato come un giardino.

C’era armonia fra uomo e donna: nessun dominio, nessuna sopraffazione, nessuna strumentalizzazione egoistica, solo la gioia di sentirsi ciascuno un dono per l’altro.

È a questo punto che – fin dall’inizio del mondo – entra in scena il serpente che convince l’uomo a infrangere i limiti impostigli dalla sua condizione di creatura, a mettere da parte il progetto del Creatore e a sostituirlo con un proprio progetto, a seguire i propri capricci e astuzie, illudendosi di raggiungere così la piena realizzazione di sé e la felicità.

Chi è il serpente? Proviamo a decodificare questa figura. Contrariamente a quello che forse pensiamo, in tutto l’Antico Testamento questo essere misterioso non compare più. Solo al tempo di Gesù gli autori giudei, per influsso del pensiero persiano ed ellenistico, hanno cominciato a vedere nel serpente il diavolo; ma il testo della Genesi non orienta verso questa spiegazione, dichiara piuttosto che il serpente è «la più astuta» delle creature di Dio.

Chi può essere? Scorriamo i primi due capitoli della Genesi, passiamo in rassegna gli esseri viventi creati dal Signore e giungeremo alla conclusione: è l’uomo, non può essere che lui il più astuto. Sì, il serpente è l’uomo stesso che, colto da un folle delirio di onnipotenza, si solleva contro Dio, pensa di potersi sostituire a lui e proclama la propria autonomia nel decidere ciò che è bene e ciò che è male.

Questa tentazione dell’autosufficienza seduce in modo subdolo, penetra impercettibile, insidiosa come un serpente, nella mente e nel cuore dell’uomo e lo induce a fare scelte di morte. In altre parole, per la Genesi, il peccato consiste nel sospettare di Dio, nel non fidarsi di lui e il cosiddetto «peccato originale» è quel senso di diffidenza costante – non soltanto iniziale – che, separandoci dalla nostra origine, il Creatore, «origina» nuove e continue cadute nella solitudine e nella contrapposizione con Dio, con la natura, con gli altri.

Il brano che ci viene proposto nella Prima Lettura di oggi ne presenta, con immagini, le drammatiche conseguenze.

L’uomo che si lascia sedurre dal «serpente» che è in lui finisce fuori posto. Dio lo cerca, lo chiama: «Dove sei?», ma non lo trova (vv. 8-9), perché non è più dove dovrebbe essere.

«Dove sei?» significa: «Dove sei andato a finire? Cos’hai fatto della tua vita? Come ti sei ridotto agendo di testa tua?».

La risposta dell’umo: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (v. 10).

È il rifiuto della presenza di Dio, considerato non più come un amico, ma come un avversario da evitare, come un tiranno che minaccia l’indipendenza e toglie la libertà.

Nascondersi dal Signore significa abbandonare la preghiera, disinteressarsi dell’ascolto della parola di Dio, prendere le distanze dalla vita della propria comunità per non essere rimessi in discussione, per non sentirsi intralciati nelle proprie scelte.

L’uomo non solo ha infranto il suo rapporto con Dio, ha perso addirittura la serenità con se stesso. La sua nudità gli procura vergogna. Se prima la nudità non costituiva problema (cf. Gn 2,25) e ora sì, il problema non sta nella nudità. È l’armonia interiore dell’uomo che è tracollata, trascinando in un rovinoso marasma l’equilibrio della vita. L’uomo si vergogna di se stesso, non si trova più bene con quel corpo che pure era stato fatto da Dio.

Il disordine si manifesta anche nell’incapacità di ammettere umilmente la propria colpa. L’uomo preferisce, vigliaccamente, colpevolizzare quella donna che poco prima aveva cantato come parte costitutiva di se stesso (cf. Gn 2,23-24). Indirettamente fa carico a Dio di questo: “Sei stato tu – insinua Adamo – a mettermi accanto una persona che, invece di condurmi a te, mi ha distolto dal tuo progetto. Io mi sono fidato di lei perché tu me l’avevi posta al fianco”.

Questa reazione rappresenta il tentativo di scaricare le responsabilità del male commesso su capri espiatori che possono essere la famiglia in cui si è nati, la società, l’educazione ricevuta e, in ultima analisi, Dio stesso che ha voluto che l’uomo non potesse realizzarsi che nell’incontro con i propri simili.

La donna, interrogata a sua volta, impara subito il tragico gioco dello “scaricabarile”, colpevolizzando a sua volta il serpente e, siccome il serpente non è che l’altra faccia della nostra umanità, le sue parole costituiscono una nuova accusa nei confronti di Dio: “Tu hai fatto male le cose creando l’uomo così com’è, capace di compiere follie e crimini. Perché non l’hai fatto diverso, perfetto? Perché in lui c’è questo «serpente» insidioso che inietta veleno mortale?”.

Dopo essersi rivolto all’uomo e alla donna, ci aspetteremmo che Dio interroghi il serpente, invece non lo fa, perché il serpente non è una creatura distinta dall’uomo, ma è la controparte dell’uomo, quella che si oppone a Dio.

Il serpente, cioè il male che è nell’uomo, avrà sempre la meglio?

Dal nostro punto di vita la condizione umana pare disperata e Paolo la descrive in toni drammatici: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto, quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,15-24).

La disfatta dell’uomo sarà dunque definitiva? Nell’ultima parte del brano (vv.14-15) Dio risponde a questa inquietante domanda. La lotta fra il «serpente» e l’uomo continuerà fino alla fine del mondo, ma viene anticipato l’esito del confronto.

Il «serpente» è dichiarato maledetto, cioè privo di forza soprannaturale e quindi non irresistibile; può essere vinto e difatti lo sarà.

Servendosi di immagini vive ed efficaci, Dio assicura che striscerà per terra, come sono costretti a fare i nemici sconfitti di fronte al vincitore (Sal 72,11); lambirà la polvere, ossia andrà incontro a una disfatta umiliante (Sal 72,9); avrà la testa schiacciata e, anche se, fino alla fine, tenterà di mettere in atto le sue insidie mortali, non riuscirà nel suo intento.

Inoltre, il Signore accende una luce di speranza, affidata a un testo chiamato con felice intuizione «protovangelo», “la prima buona notizia”: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (v.15).

C’è un annuncio di vittoria, viene prospettata una donna che genera un figlio capace di vincere.

Nonostante l’abituale rappresentazione di una dona che schiaccia la testa al serpente, il testo biblico afferma piuttosto che sarà la “stirpe” a vincere, cioè la discendenza o il figlio di questa donna.

La vitoria è espressa con “schiacciare la testa” che è una parte vitale. Il tentativo di opposizione sarà infruttuoso perché assalirà al calcagno, parte non vitale e soprattutto parte ispessita da un robusto callo (in quell’epoca si camminava a piedi nudi).

Nel nostro brano è stato aggiunto il v. 20 che celebra Eva come madre di tutti i viventi.

A questo punto s’impone una domanda: cosa c’entra tutto questo con la festa odierna dell’Immacolata Concezione di Maria?

Credo di poter dire che tutto ciò è un invito a rivolgere lo sguardo verso colei che, fin dal suo concepimento, ha realizzato quell’armonia perfetta che Dio aveva sognato il primo mattino del mondo. È immacolata fin dal suo concepimento, cioè, nella totalità della sua esistenza. In lei la vittoria sul «serpente» è stata completa perché in lei lo Spirito divino che ha animato suo Figlio ha potuto operare le sue meraviglie.

È il segno più nitido del trionfo di Dio sul male.

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