Churchill

Churchill- Un grande genio,
ma anche un vendicativo pasticcione

Churchill – Anche se l’Inghilterra
non lo aveva mai dimenticato,
la signora Thatcher
lo ha fatto tornare di moda.
E gli ultimi libri sul vecchio Winston
rivelano molti lati sconosciuti
della sua personalità.

Uomo di potere e di guerra,
era capace di piangere
a causa della morte di un gatto
ma non aveva alcun riguardo
per la vita umana, neanche per la sua.
Le incertezze con Stalin,
i progetti per l’Europa

Churchill – La Signora Thatcher
ha fatto ritornare di moda Churchill.
Certamente l’Inghilterra
non l’aveva mai dimenticato.

Churchill è sempre rimasto per gli inglesi
un personaggio di famiglia,
invadente e attaccaticcio,
un personaggio di cui
non ci si libera facilmente,

con il quale debbono fare i conti,
prima di uscire di scena,
tutti coloro che hanno lavorato con lui
o lo hanno combattuto,
tutti coloro che l’hanno amato o odiato.

Guai a chi osa toccarlo.
Anni fa c’è stato lo scandalo
del suo ritratto ufficiale,
dipinto dal più noto pittore britannico,
Graham Sutherland,
bruciato dalla consorte Lady Clementine

(morta in gravi ristrettezze economiche
quasi spogliata dal fisco), perché riproduceva
un Churchill in disfacimento,
con pappagorgia e guance cascanti,
non senza una piega di sprezzante durezza,
anzi di crudeltà.

Ma è proprio il Churchill
duro fino alla crudeltà che piace,
il Churchill che ha fatto da suggeritore
alla Thatcher nelle Falkland.

Se prima ogni giudizio negativo su Churchill,
ogni accusa di crudeltà e di disumanità
provocavano valanghe di proteste al «Times»
con patetiche citazioni sull’amore di Churchill
per gli animali e la natura, con la rievocazione
di remoti episodi di gentilezza,
signorilità, nobiltà d’animo,

oggi, invece, è in voga l’altra faccia di Churchill:
vendicativo, aggressivo come un bull-dog,
pronto ad azzannare a morte
i nemici del suo Paese.

Ed ecco, nello spazio di pochi mesi
apparire nuovi libri su di lui
di tono totalmente apologetico
come, ad esempio,
il sesto volume della monumentale biografia
di Martin Gilbert («Finest Hour»,
Heinemann, Londra 1983)

che descrive in milletrecento pagine,
istante per istante,
l’ora più bella dello statista,
la resistenza solitaria dell’Inghilterra
ad Hitler tra il ’39 e il ’41,

esaurendo, come ha osservato
il critico Piers Brendon,
tutto il vocabolario dell’ammirazione.

Sulla stessa linea si muove anche
lo storico americano William Manchester,
il biografo di Mac Arthur,
che nel suo volume dedicato
alla prima fase della vita di Churchill,
dall’anno di nascita, 1874, al 1932

(«The Last Lion», (L’ultimo leone),
Michael Joseph, Londra 1983)
si serve della vicenda del suo personaggio
al fine di descrivere le tappe del trapasso
dalla Belle époque
all’effimero splendore degli anni Trenta.

Un correttivo alle esaltazioni eccessive
e alle mode sul defunto premier
è offerto, invece, dalla memorie
di un uomo politico inglese
relegato in secondo piano
nell’era di Churchill, Lord Boothby.

I suoi ricordi
(«Recollections of a Rebel»,
Hutchinson, Londra 1978),
passati inosservati in Italia,

forniscono di Churchill
l’immagine veritiera
di uno statista fantasioso,
piuttosto pasticcione,
superbamente egoista,
senza sminuirne la genialità e la grandezza.

Curiosamente fornito
di una vaga somiglianza
con Churchill nell’aspetto
a causa della corporatura robusta,
la cravatta a farfalla,
il faccione paffuto e liscio,

Boothby conosce bene il suo uomo:
è infatti il suo segretario parlamentare
negli anni ’20,
lo fiancheggia negli anni ’30
nella sua campagna contro il disarmo
e contro l’acquiescenza verso i dittatori,

diventa sottosegretario nel suo governo
nel 1940 ed infine lo segue ancora
negli ultimi anni della sua carriera politica
come membro
del gruppo conservatore ai Comuni.

Ma proprio perché lo conosce,
non risparmia il suo vecchio capo.

Essenzialmente «uomo di potere e di guerra»,
Churchill, per Boothby,
è capace di piangere
a causa della morte di un cigno o di un gatto
ma non ha alcun riguardo
per la vita umana, neanche per la sua.

La sua «crudeltà», d’altra parte,
è in funzione del potere;
egli, infatti, non esita a liquidare o a rovinare
i propri collaboratori senza il minimo rimorso
e non esita egualmente a mettere da parte
politici o militari intelligenti e competenti
se essi si frappongono tra lui e il potere.

Ad esempio, il vincitore della battaglia d’Inghilterra,
il comandante della caccia, Dowding,
viene bruscamente rimosso.
Un altro generale, Montgomery,
deve interrompere un suo giro
nelle fabbriche inglesi
perché si dimostra troppo popolare.

Un naturale egocentrismo
in cui confluiscono
l’orgoglio atavico della famiglia paterna
e il sangue materno americano
induce Churchill a non tollerare
– afferma Boothby – qualsiasi genere
di sfida personale alla sua supremazia.

Con lui, racconta ancora Boothby
«mi sentivo come un giocattolo
nelle mani di un bambino dispettoso».
«Non sapevo mai
se stava cercando di farmi a pezzi
o di aggiustarmi».

Occorre riconoscere
che in parecchi casi
Churchill aveva a che fare
con persone come Boothby,
brillanti ma troppo estrose

(ad esempio, quando è sottosegretario
all’Alimentazione, Boothby ha la spavalderia
di scrivere a Churchill una lettera di consigli
sul modo di condurre la guerra).

E forse il lato debole di Churchill
non è dato soltanto
da un’utilizzazione spregiudicata degli uomini,
allontanati quando non servivano più
o quando potevano dare ombra.

Il primo ministro giocava con le idee
come con gli uomini, se ne serviva
ma frequentemente le dimenticava o le gettava.

Poco male, almeno per noi,
se – come Boothby lo accusa –
dopo aver pensato
di dare all’Austria l’Alto Adige,
ci ripensa a causa del veto di Stalin.

Davvero grave invece è nel dopoguerra
il suo atteggiamento verso l’Europa.

Nel 1946, nel discorso di Basilea,
Churchill rilancia clamorosamente
il tema degli Stati Uniti d’Europa.

Quattro anni dopo si batterà
per una difesa militare comune europea,
e per la creazione di un esercito europeo,
ma si baloccherà persino con l’idea
di diventare il ministro della Difesa
dell’Europa unita.

L’europeismo di Churchill
era allora talmente contagioso ed incalzante,
che il ministro degli Esteri inglese dell’epoca,
il laburista Morrison, aveva ammesso
il principio di un’autorità sovrannazionale europea.

Tutti si aspettavano perciò che nel 1951,
con l’avvento del governo conservatore
da lui presieduto, l’Inghilterra avrebbe assunto
la guida del processo di unificazione europea.

Al contrario, Churchill lascerà che Eden,
tornato ad essere il suo ministro degli Esteri
prima di prendere la sua successione,
ripudi l’europeismo britannico.

Sarà Eden a scartare con decisione
l’ipotesi dell’adesione della Gran Bretagna
alla Comunità europea di difesa
che non è altro che la proiezione concreta
dell’idea churchilliana dell’esercito europeo.

Eden manterrà l’Inghilterra dapprima
fuori del negoziato
al fine della creazione della Comunità europea
del carbone e dell’acciaio
e poi fuori della Comunità economica europea.

Insomma, Churchill,
nonostante l’enorme prestigio
che lo circonda in tutta l’Europa,
e nonostante il suo
apparentemente convinto europeismo
degli anni precedenti,

passa la mano agli Adenauer,
agli Schumann, ai De Gasperi,
inaugurando così
quell’isolazionismo britannico verso l’Europa
che perdurerà fino alla fine degli anni ’60,

pur trasformandosi ultimamente
da volontario ad involontario
a causa dell’opposizione di de Gaulle,
una opposizione
che non sarebbe stata operante
se l’Inghilterra avesse fatto parte
fin dall’inizio del club europeo.

La verità è che, tornato al potere,
Churchill non pensa più all’Europa,
crede piuttosto di poter tornare a ricoprire
lo stesso ruolo di Teheran e di Yalta,
il ruolo di «grande» e pensa di
«fare la pace con Stalin», anzi di essere
il solo che può fare la pace con Stalin.

L’accordo con Stalin,
che muore due anni dopo,
tuttavia non sopravviene.

D’altro canto,
Churchill era poi davvero capace
di trattare con Stalin, con lo «zio Joe»?

In realtà anche rispetto a Stalin
la politica di Churchill
è tutt’altro che stabile e ferma.

Come risulta da un saggio storico
di Elizabeth Barker
(«Churchill and Eden at War»,
Macmillan, Londra 1978),
l’atteggiamento di Churchill verso Stalin
oscillava tra la simpatia e il sospetto,

ma soprattutto il primo ministro
non ebbe mai idee chiare e precise
sul prezzo che l’Urss doveva pagare
per l’amicizia, gli aiuti
e le concessioni della Gran Bretagna;

l’incertezza di Churchill a questo proposito
permise alla fine dell’Urss
di ottenere tutto senza pagare nulla.

Accade così che Attlee e Bevin,
uomini di sinistra
ma fermamente anticomunisti,
subentrati a Churchill e a Eden
come primo ministro
e ministro degli Esteri nel 1945,

si riveleranno, per Mosca,
ossi assai più duri da rodere
di un uomo di destra come Churchill
e di cui al Cremlino
si rimpiangerà apertamente
la sconfitta elettorale.

Ad ogni modo, con tutti i suoi difetti,
con la sua aggressività, con le sue zone d’ombra,
e con i suoi tragici errori

(ma la Barker ricorda
che in quella gara negli errori
che è stata la II Guerra Mondiale,
Churchill ha avuto il merito
di sbagliare meno degli altri),

Churchill continua a giganteggiare
nella storia britannica
e nella storia europea.

Il segno indelebile
della grandezza di carattere
si rivela anche nell’ultimo Churchill,
ormai in piena decadenza fisica,
ospite di gente volgare.

Boothby racconta di Churchill
che, per quanto assopito,
coglie un duro commento di una signora:
«Peccato che un uomo così grande
finisca la sua vita in compagnia
degli Onassis e di Wendy Rives»
(un’agente letteraria).

Ridestandosi,
Churchill replica seccamente alla signora:
«Wendy Rives è qualcosa
che tu non sarai mai.
È giovane, è bella ed è gentile».

Ma le ultime parole
dette da Churchill a Boothby
valgono come un’epigrafe,
degne come sono di un Marco Aurelio,
di un imperatore-filosofo.

«Valeva la pena di fare il viaggio»,
dice Churchill alludendo alla sua vita.
«E dopo?» domanda Boothby.
«Dopo? – risponde Churchill –
un lungo sonno: me lo merito».

Ma la «dama di ferro» l’ha risvegliato.

Ludwig Gritti, «Com’era veramente Churchill.
Un grande genio, ma anche
un vendicativo pasticcione», in “Il Giorno”,
sabato 17 settembre 1983, p. 3.

Foto: Ricostruzione del ritratto
di Winston Churchill
di Graham Sutherland / arte.sky.it

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