Berardo

Berardo, Ottone, Pietro, Accursio e Adiuto (+ 1220) – Protomartiri dell’Ordine Francescano – 16 gennaio

Berardo. Sei anni dopo la sua conversione, San Francesco d’Assisi,
dà origine all’Ordine dei Frati Minori, approvato da Innocenzo III papa nel 1209.

Convinto che ci dev’essere un modo migliore delle crociate per convertire i Saraceni,
e acceso dal desiderio del martirio,
decide di recarsi in Siria (1211), per conquistare anime a Cristo,
ma una tempesta getta la nave su cui viaggia sulle rive della Dalmazia,
ed è costretto a ritornare, nascosto su una nave che lo ha rifiutato, ad Ancona.

Ritornato ad Assisi, predica in cattedrale la quaresima
e attrae alla scuola di Madonna Povertà Chiara di Offreduccio,
cofondatrice delle Povere Dame di San Daminao (1212).

Il desiderio di ottenere la corona del martirio continua a pervadere il cuore di Francesco
Si mette perciò in viaggio verso il Marocco
per predicare il Vangelo al Miramolino, o capo dei Saraceni e ai suoi correligionari.
Tommaso da Celano, lo storico di Francesco scrive che «è tale la forza del desiderio,
che lascia ogni tanto indietro il compagno di viaggio,
affrettandosi in ebbrezza di spirito a compiere il suo proposito».
Arrivato in Spagna,
una malattia lo costringe a ritornare con Frate Bernardo da Quintavalle alla Porziuncola (1213).

Nonostante i due insuccessi patiti, organizzato l’Ordine in province (1217),
Francesco provvede a mandare missionari in tutte le principali nazioni d’Europa.

Nel famoso Capitolo generale delle stuoie,
celebrato alla Porziuncola, nella Pentecoste del 1219,
Francesco dà licenza ai frati Vitale e Ottone sacerdoti,
Berardo suddiacono, e ai conversi Pietro, Accursio, Adiuto,
tutti nativi della provincia di Terni,
dove il Santo soggiorna almeno cinque volte dal 1209 al 1226,
di andare a predicare il Vangelo ai Saraceni del Marocco.

Francesco, invece, con una dozzina di compagni,
tra i quali Pietro Cattani e Illuminato da Rieti,
si aggrega ai crociati diretti in Palestina,
al fine di visitare i luoghi santi e convertire i Saraceni, pur ignorandone la lingua.

I sei missionari, nell’intento di giungere in Marocco, raggiungono a piedi la Spagna.
Giunti nel regno di Aragona, Vitale, responsabile del gruppo,
si ammala gravemente e, poiché tarda a rimettersi,
ordina agli altri confratelli di proseguire il loro cammino.

Da questo momento della vicenda
le fonti agiografiche, tutte piuttosto tarde, tendono a riservare il ruolo di protagonista
e la direzione della missione stessa a Berardo,
che dicono sacerdote e che presentano come buon conoscitore della lingua araba.
In realtà – come risulta dall’esame dei documenti – Berardo non è che suddiacono;
e, poiché nel gruppo solo Ottone, oltre a Vitale, è sacerdote (gli altri tre sono fratelli laici),
è molto probabile che appunto Ottone assuma la direzione della missione.

A Coimbra, in Portogallo,
i cinque frati sono ricevuti dalla regina Orraca, moglie di Alfonso II.
Si riposano alcuni giorni nel convento di Alanquer,
beneficiando dell’aiuto dell’infanta Sancia, sorella del re,
che fornisce loro degli abiti civili per facilitare la loro opera di apostolato tra i musulmani.
Così abbigliati, si imbarcano alla volta di Siviglia, occupata dai Saraceni.

Là incontrano un buon cristiano, il quale li accoglie nella propria abitazione,
dove rimangono nascosti alcuni giorni.
Dopo circa una settimana, usciti dalla casa senza guida né consiglio alcuni,
si dirigono alla moschea principale con l’intenzione di entrarvi,
ma ne sono impediti dai Saraceni che fanno irruzione su di loro con grida, spintoni e percosse.
I frati si avvicinano allora alla porta del palazzo reale,
decisi ad entrare e predicare davanti allo stesso califfo.
Questi, colmo d’ira, ordina l’immediata decapitazione degli imprudenti religiosi.

Il figlio del califfo, provando pietà per “quella pazzia così rara” dei frati,
cerca di calmare lo sdegno del padre e gli ricorda che la legge prevede
che prima di una condanna a morte siano consultati gli anziani.
Il sultano si calma, ma come primo provvedimento
ordina che i cinque siano isolati sul terrazzo di un’alta torre.
Con scarsi risultati: presala per un pulpito,
gridano ai passanti la verità della fede cristiana e la falsità della fede islamica.

Il sultano, venuto a conoscenza del fatto,
li fa rinchiudere nella prigione sotterranea della torre.
Poi li fa chiamare per un nuovo faccia a faccia,
cercando di convincerli a desistere dal loro proposito.

Infine, convintosi che il tentativo è inutile,
convoca il Consiglio dei saggi e degli anziani del regno.
Ma i cinque frati inflessibili,
approfittano di quell’assemblea per annunciare con fermezza la loro fede.

A questo punto il califfo,
deciso a porre fine a quell’ingrata sfida,
ordina l’immediata espulsione di quei pazzi frati, che vengono così sbarcati in Marocco.

Qui si mettono a predicare il Vangelo
e a invitare i saraceni a convertirsi.
Vengono arrestati e portati davanti al sultano Abū ya’qūb yūsuf al Mustanṣir,
indicato come Miramolino dai cronachisti cattolici medievali.

Meno feroce di come è descritto nelle antiche biografie,
il Miramolino tollera la presenza di navigatori e commercianti spagnoli e portoghesi,
stabilitisi nelle sue terre per affari, senza esigerne la conversione,
a patto che non manifestino in pubblico la propria fede.
Ma per quanto tollerante,
non può far finta di nulla quando i 5 frati cominciano a predicare il Vangelo di Cristo,
invitando addirittura i Saraceni a convertirsi.

Miramolino, però, vuole mostrarsi generoso:
non li condanna a morte ma li affida all’Infante Pedro,
che, esule dal Portogallo per contrasti con il fratello, il re Alfonso II,
si trova in quel frangente in Marocco.
Questi cerca di farli rimpatriare, affidandoli ad una scorta che dovrebbe condurli a Ceuta.
I cinque, tuttavia, eludono la vigilanza delle guardie
e, sfidando il divieto del califfo,
tornano a predicare di fronte all’attonita popolazione musulmana nel suk,
il formicolante mercato di Marrakech.

Il sultano, sempre più irritato,
ordina che i frati siano incarcerati e lasciati senza cibo e acqua.

Dopo tre settimane di digiuno totale,
uno dei consiglieri del Miramolino, di nome Abatourim,
uomo islamico che non nasconde le proprie simpatie per i cristiani,
suggerisce di lasciarli liberi ritenendo che il castigo possa essere sufficiente a scoraggiarli.

Il sultano si convince:
li libera e li espelle ancora una volta dal paese.
Ma ancora una volta, i cinque, fuggono e tentano di riprendere la predicazione.
Vengono fermati, questa volta, dagli stessi cristiani.

L’infante Pedro,
dovendo in quei giorni partire con una truppa composta da mori e cristiani
per soffocare una ribellione, prende con sé i cinque frati.
Nell’attraversare una regione desertica, l’intero drappello trascorre tre intere giornate
senza che si riesca a reperire una sola stilla d’acqua.
Ma un colpo di scena cambia la situazione.
Berardo fa un buco nella sabbia con un bastone
e subito dal deserto scaturisce una fonte copiosa d’acqua,
grazie alla quale uomini e bestie placano la sete.
Saraceni e cristiani, giubilando per quella meraviglia,
baciano i piedi e gli abiti dei frati taumaturghi.

La spedizione prosegue
e nel continuo convivere e conversare tra mori e cristiani,
un dotto e fervente islamico discute con i cinque
ma rimane schiacciato dalla loro dialettica.

Al ritorno della truppa,
il Miramolino viene a conoscenza del prodigio dell’acqua
e della pessima figura a cui i cinque hanno costretto il saggio imam.
Poi, la sua rinnovata rabbia diviene incontrollabile
quando nel recarsi alle tombe dei suoi predecessori,
s’imbatte nuovamente nei cinque frati, intenti a predicare.

Il sultano convoca subito il principe Abosaid
al quale ordina la cattura e la decapitazione dei “cinque intrusi”.
Il principe, però, un po’ per segreta ammirazione e un po’ per compassione,
sperando che l’intervento di alcuni nobili cristiani
possa convincere il sultano a revocare la sentenza,
riesce a ritardare l’esecuzione dal mattino fino al tramonto.
In realtà nessuno, né nobile né plebeo, si offre di fare pubblicamente da paciere,
anche per il fondato timore che si scateni una vera e propria caccia al cristiano.

Giunta la notte, dunque, il principe Abosaid ordina a un picchetto di soldati
di portare i cinque prigionieri al suo cospetto, ma poi non si fa trovare in casa.
I soldati tornarono con i prigionieri al mattino presto, ma il principe è ancora assente.

Berardo e Compagni sono allora trasportati nel carcere principale di Marrakech.

Dopo tre giorni di detenzione,
Berardo, Accursio, Adiuto, Pietro e Ottone sono spogliati,
legati, colpiti e frustati a sangue.

Il principe si incarica personalmente dell’interrogatorio.
Ma Berardo e Compagni cercarono, ancora una volta, di convertirlo,
minacciandolo delle pene dell’inferno.

Abosaid ordina dunque che, condotti separatamente in case diverse,
ricevano un’ulteriore dose di frustate.
Sulle ferite dei frati si versa aceto e olio bollente
e i corpi dei religiosi sono trascinati per tutta la notte su pezzi di vetro.

Totalmente, nudi, con le mani legate e il sangue che continua a uscire dalla bocca,
i frati sono poi condotti per le strade, spinti dallo schioccare dei colpi della frusta.

Abosaid tenta per l’ultima volta di convincere i cinque
a ritrattare le frasi dette contro gli islamici e contro Maometto, promettendo il perdono.
Ma frate Ottone risponde mandando al diavolo “la legge empia”
e “bestemmiando” contro il profeta Maometto.

Sant’Antonio da Padova a Terni, Santuario Antoniano dei Protomartiri / compagniadeiromei.it

Abosaid è costretto ad arrendersi di fronte all’ostinato atteggiamento dei cinque frati.
Li rimanda allora dal sultano che tenta, ancora una volta,
di convertirli promettendo donne, ricchezze e posti d’onore.
Ma riceve l’ennesimo rifiuto.

A questo punto è lo stesso Miramolino che,
impugnata la sua scimitarra,
decapita i cinque intrepidi confessori della fede.
È il 16 gennaio 1220.

Appresa la notizia del martirio dei cinque suoi figli, San Francesco esclama:
«Ora posso dire che ho veramente cinque Frati Minori».

I corpi e le teste dei martiri sono gettate fuori dal palazzo reale.
Il popolo se ne impadronisce e, tra urla e oltraggi di ogni genere,
li trascina per le vie della città ed infine li espone sopra un letamaio,
in preda ai cani ed agli uccelli.
Un provvidenziale temporale mette però in fuga gli animali
e permette così ai cristiani di recuperare i resti dei frati
e trasportarli nella residenza dell’Infante.

Questi fa costruire due casse d’argento di differente grandezza.
Nella più piccola vi depone le teste,
mentre nella più grande i corpi dei martiri.
Tornando in Portogallo, porta infine con sé le preziose reliquie.

A Lisbona, all’arrivo delle salme,
è presente anche il canonico di S. Croce Fernando di Lisbona,
il futuro s. Antonio da Padova,
che matura in quella circostanza la propria vocazione francescana.

Dalla città portoghese le reliquie sono portate al monastero di Santa Croce a Coimbra
e custodite in una cappella.
Lì rimangono fino all’inizio degli anni Duemila quando,
su richiesta del vescovo di Terni, Vincenzo Paglia,
i resti dei protomartiri tornano in Italia:
oggi riposano in un nuovo reliquiario nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Terni,
proprio di fronte alla cappella dove è venerata una reliquia del santo.

In una lettera del 12 luglio 1321 a Giovanni XXII
il conte-re Jaime II di Catalogna-Aragona chiede al papa di iniziare il processo informativo
per la canonizzazione dei cinque francescani.

La conferma del culto, ma non una canonizzazione formale,
avviene ad opera del papa francescano Sisto IV,
che con la bolla “Cum alias” del 7 agosto 1481
autorizza i frati minori a celebrare nelle loro chiese, il 16 gennaio di ogni anno,
la festa di Berardo e dei suoi compagni martiri.

Foto di apertura: San Berardo e Compagni martiri / assisiofm.it

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