Ascensione

Ascensione – At 1,1-11 – Anno C

Ascensione – Luca è l’unico evangelista
che presenti l’Ascensione sotto forma di racconto.
Addirittura fornisce due racconti:
uno al termine del Vangelo che porta il suo nome,
l’altro all’inizio degli Atti degli Apostoli.

A prima vista, il racconto scorre fluido,
ma quando si considerano tutti i particolari
si comincia a provare un certo imbarazzo:

sembra piuttosto inverosimile
che Gesù si sia comportato come un astronauta
che si stacca dal suolo,
s’innalza verso il cielo
e scompare oltre le nubi;

ma soprattutto tra i due racconti
ci sono alcune incongruenze
difficili da spiegare.

Alla fine del vangelo che porta il suo nome,
Luca afferma che il Risorto
condusse i suoi discepoli verso Betania
e «mentre li benediceva si staccò da loro
e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato,
tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (Lc 24,50-53).

Lasciamo perdere la strana annotazione sulla «grande gioia»
(chi di noi è felice quando un amico parte?)
e il disaccordo sulla località
(Betania è un po’ fuori mano rispetto al monte degli Ulivi).

Ciò che sorprende è la palese divergenza sulla data:
secondo Lc 24 l’Ascensione avviene la sera stessa di Pasqua,
mentre negli Atti è collocata quaranta giorni dopo (At 1,3).
Stupisce che lo stesso autore fornisca due informazioni contrastanti.

Se prendiamo per buona la seconda versione
(quella dei quaranta giorni) viene spontaneo chiedersi:
cosa ha fatto Gesù durante questo tempo?
Sul Calvario non aveva promesso al ladrone:
Oggi sarai con me in paradiso? Perché non è vi andato subito?

Le difficoltà elencate sono sufficienti per metterci in guardia:
forse l’intenzione di Luca non è quella di informarci
su dove, come e quando Gesù è salito al cielo.

Forse (anzi, senza forse!) la sua preoccupazione è un’altra:
vuole rispondere a problemi e sciogliere dubbi
che sono sorti nelle sue comunità,
vuole illuminare i cristiani del suo tempo
sul mistero ineffabile della Pasqua.

Per questo compone una pagina di teologia
utilizzando un genere letterario e delle immagini
ben comprensibili ai suoi contemporanei.
Il primo passo da compiere dunque
è quello di comprendere il linguaggio impiegato.

Al tempo di Gesù l’attesa del regno di Dio è vivissima
e gli scrittori apocalittici la annunciano come imminente.
Si attendono: un diluvio di fuoco purificatore dal cielo,
la risurrezione dei giusti e l’inizio di un mondo nuovo.

Anche nella mente di alcuni discepoli si crea un clima di esaltazione,
alimentata da alcune espressioni di Gesù
che possono facilmente essere fraintese:
«Non avrete finito di percorrere le città di Israele,
prima che venga il Figlio dell’uomo» (Mt 10,23);
«Vi sono alcuni tra i presenti che non morranno
finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno» (Mt 16,28).

Con la morte del Maestro, però, tutte le speranze vengono deluse:
«Noi speravamo che egli sarebbe stato quello
che avrebbe liberato Israele» – diranno i due di Emmaus (Lc 24,21).

La risurrezione risveglia le attese:
si diffonde fra i discepoli la convinzione di un immediato ritorno di Cristo.
Alcuni fanatici, basandosi su presunte rivelazioni,
cominciano addirittura ad annunciarne la data.
In tutte le comunità si ripete l’invocazione:
«Marana tha», vieni Signore!

Gli anni passano, ma il Signore non viene.
Molti cominciano a ironizzare:
«Dov’è la promessa della sua venuta?
Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi,
tutto rimane come al principio della creazione» (1 Pt 3,4).

Luca scrive in questa situazione di crisi.
Si rende conto che un equivoco
sta all’origine della cocente delusione dei cristiani:
la risurrezione di Gesù ha segnato sì l’inizio del regno di Dio,
ma non la conclusione della storia.

La costruzione del mondo nuovo è soltanto iniziata,
richiederà tempi lunghi
e tanto impegno da parte dei discepoli.

Come correggere le false attese?
Luca introduce nella prima pagina del libro degli Atti
un dialogo fra Gesù e gli apostoli.
Consideriamo la domanda che questi pongono:
quando giungerà il regno di Dio? (v. 6).
È la stessa che, alla fine del primo secolo,
tutti i cristiani vorrebbero rivolgere al Maestro.

La risposta del Risorto, più che ai Dodici,
è diretta ai membri delle comunità di Luca:
smettetela di disquisire sui tempi
e sui momenti della fine del mondo,
questi sono conosciuti solo dal Padre.

Impegnatevi piuttosto
a portare a compimento la missione
che vi è stata affidata:
essere miei testimoni «a Gerusalemme,
in tutta la Giudea e la Samaria
e fino agli estremi confini della terra» (vv. 7-8)!

A questo dialogo fa seguito la scena dell’Ascensione (vv. 9-11).
Gesù e i discepoli sono seduti a mensa (At 1,4), in casa dunque.

Perché non si sono salutati lì, dopo aver cenato?
Che bisogno c’era di andare verso il monte degli Ulivi?
E gli altri particolari: la nube, gli sguardi rivolti verso il cielo,
i due uomini in bianche vesti
sono annotazioni di cronaca o artifici letterari?

Nell’Antico Testamento c’è un racconto che assomiglia molto al nostro:
si tratta del «rapimento» di Elia (2 Re 2,9-15).

Un giorno questo grande profeta
si trova presso il fiume Giordano con il suo discepolo Eliseo.
Questi, saputo che il maestro sta per lasciarlo,
osa chiedergli in eredità due terzi del suo spirito.
Elia glieli promette, ma solo a una condizione:
se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te.

All’improvviso, appare un carro con cavalli di fuoco
e, mentre Eliseo guarda verso il cielo,
Elia viene rapito in un turbine.
Da quel momento Eliseo riceve lo spirito del maestro
ed è abilitato a continuarne la missione in questo mondo.

Il libro dei Re racconterà poi le opere di Eliseo:
sono le stesse che ha compiuto Elia.

Facile rilevare gli elementi comuni con il racconto degli Atti
e allora la conclusione non può essere che questa:

Luca si è servito della scenografia grandiosa
e solenne del rapimento di Elia
per esprimere una realtà
che non può essere verificata con i sensi
né descritta adeguatamente con parole:
la Pasqua di Gesù, la sua risurrezione
e la sua entrata nella gloria del Padre.

La nube, nell’Antico Testamento,
indica la presenza di Dio in un certo luogo (Es 13,22).
Luca la impiega per affermare che Gesù, lo sconfitto,
la pietra scartata dai costruttori,
colui i nemici avrebbero voluto
che rimanesse per sempre prigioniero della morte,
è stato invece accolto da Dio e proclamato Signore.

I due uomini vestiti di bianco sono gli stessi
che compaiono presso il sepolcro nel giorno di Pasqua (Lc 24,4).
Il colore bianco rappresenta,
secondo la simbologia biblica, il mondo di Dio.
Le parole poste sulla bocca dei due uomini
sono la spiegazione data da Dio agli avvenimenti della Pasqua:

Gesù, il Servo fedele,
messo a morte dagli uomini,
è stato glorificato.
Le loro parole sono veritiere
(essendo due, sono testimoni degni di fede).

Lo sguardo rivolto al cielo.
Come Eliseo, anche gli apostoli
e i cristiani del tempo di Luca
rimangono a contemplare il Maestro che si allontana.

Il loro sguardo indica la speranza
di un suo immediato ritorno,
il desiderio che, dopo un breve intervallo,
egli riprenda l’opera interrotta.

Ma la voce dal cielo chiarisce:
non sarà lui a portarla a compimento,
sarete voi. Lo farete, siete abilitati a farlo
perché avete trascorso con lui quaranta giorni
(nel linguaggio del giudaismo era il tempo necessario
alla preparazione del discepolo) e ne avete ricevuto lo Spirito.

Per gli apostoli, come per Eliseo,
l’immagine del «rapimento del Maestro»
indica il passaggio di consegne.

Già al tempo di Luca c’erano cristiani che «guardavano al cielo»,
cioè, che consideravano la religione come un’evasione,
non come uno stimolo a impegnarsi concretamente
per migliorare la vita degli uomini.

Ad essi Dio dice «smettetela di guardare il cielo»,
è sulla terra che dovete dar prova dell’autenticità della vostra fede.
Gesù tornerà, sì, ma questa speranza
non deve essere una ragione per estraniarvi
dai problemi questo mondo.
Beati saranno infatti quei servi che il Signore, ritornando,
troverà impegnati nel lavoro per i fratelli (Lc 12,37).

Gesù è dunque salito al cielo? Certo che sì,
ma dire che è asceso al cielo equivale a dire:
è risorto, è stato glorificato, è entrato nella gloria di Dio.

Il suo corpo, è vero, è stato posto nel sepolcro,
ma Dio non ha avuto bisogno degli atomi del suo cadavere,
per dargli quel «corpo da risorto»
che Paolo chiama: «Corpo spirituale» (1 Cor 15,35-50).

Quaranta giorni dopo la Pasqua
non si è verificato alcun spostamento nello spazio,
nessun «rapimento» dal monte degli Ulivi verso il cielo.
L’Ascensione è avvenuta nell’istante stesso della morte,
anche se i discepoli hanno cominciato a capire
e a credere solo a partire dal «terzo giorno».

In conclusione, il racconto di Luca è una pagina di teologia,
non il reportage di un cronista.

In questa pagina egli vuole dirci
che Gesù ha attraversato per primo il «velo del tempio»
che separava il mondo degli uomini da quello di Dio
e ha mostrato come tutto ciò che accade sulla terra:
successi e disavventure, ingiustizie, sofferenze
e persino i fatti più assurdi, come una morte ignominiosa,
non sfuggono al progetto di Dio.

L’Ascensione di Gesù è tutto questo.
Allora non ci si deve meravigliare
che sia stata salutata dagli apostoli con gioia grande (Lc 24,52).

Fernando Armellini, «Ascoltarti è una festa».
Anno C. Le letture domenicali spiegate alla comunità,
Edizioni Messaggero Padova, Padova 2003, pp. 265-269.

Foto: Affresco dell’Ascensione,
Soffitto della Chiesa di Santa Maria ai Monti,
Roma / pl.wikipedia.org

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