Tonino Caputo

Tonino Caputo. Acqueforti e pitture
Un incisore che tramuta il colore in oro

Tonino Caputo. Esaminando le acqueforti
e in ordine di tempo le pitture che Tonino Caputo espone
in questi giorni a Castel Sant’Angelo, c’è il pericolo di perdersi in una ragnatela
di ricerche faticose e poco conclusive chiedendosi se Tonino Caputo
nasce prima come pittore o acquafortista.

E se nasce come acquafortista o lo diventa per elezione,
vien voglia di vedere subito se le sue incisioni
siano lavorate a intaglio o a incavo.

Vasari alla sua solita maniera spicciativa diceva «tagliare»,
sia che si trattasse di legni o di metalli
dal momento che il modo di tagliare è decisivo
per chi voglia aggredire i colori e la tela da Dürer a Morandi.

Sotto questo profilo ci sarebbe da scrivere un trattato
sul pittoricismo della calcografia
in rapporto alla pittura di affresco o di cavalletto.

A guardare queste lastre e queste tele di Tonino Caputo,
si ha la malcerta persuasione ch’egli abbia prima tagliato il legno
e il metallo e si sia destreggiato nella carriera incisoria
allo scopo di diventare maestro delle lastre calcografiche.

Era un lungo tirocinio quello dell’incidere,
come appare nella stampa dei Pianeti Fiorentini
dove uno degli orafi è intento a incidere una lastra
con il bulino a portata di mano,
mentre l’altro armeggia sull’incudine.

In altre parole resta in piedi l’importante quesito della connessione
dell’incisione con le manipolazioni orafesche.

Certe raffinatezze nelle stampe di Tonino Caputo,
specialmente nei particolari di secondo piano,
difficilmente si spiegherebbero senza una lunga esperienza
tra pratica incisoria e quella orafa.

È vero che Vasari e Cellini stavano per la derivazione della tecnica incisoria
da quella del niello, ma non avevano dubbi di esaltare l’abilità del niellista
che scava in uno spazio di solito tanto ristretto.

* * *

Ma è chiaro che l’avvio del discorso
non può esaurirsi nell’indagine delle sottigliezze critiche:
bulino, taglio; incavo, morsura e via dicendo,
se non si corresse il pericolo davanti a una lastra o a una tela di Tonino
di lasciarsi andare a momenti di felicità e di facilità.

Soleva accadere a Frescobaldi e a Vivaldi che quasi tutti i pittori e gli scultori
amano ascoltare nel loro studio mentre lavorano, e soleva accadere a chiunque,
anche a Mucantonio degli Uberti (per conservare le debite distanze dai moderni
e il rispetto dagli antichi) o Cristofano Robetta che si occupava solo del bulino
e cercò di addomesticarsi con Filippo Lippi nonostante fosse
uno dei più scapestrati della godereccia brigata del Paiolo.

Perché sono convinto che quando si ha a che fare
con un artista dalle intenzioni serie, il discorso non diventa mai facile,
a meno che non si tratti delle spaventose battaglie patrie e risorgimentali
o del Ponte dell’Ammiragliato dove la immensità della tela
può indurre a far cilecca anche al più attento osservatore.

Non possono affermarsi sveltamente le preferenze orafe di Tonino Caputo,
se si osserva l’abilità con cui conchiude in spazi tanto esigui
episodi spesso tanto complessi.

E non oserei riferirmi ai portentosi miracoli di orificerie di Donatello
nelle celebri portelle del Santo di Padova
e di Pollaiolo nel sepolcro di Sisto IV.

Basterebbe come avvio le famose lastre del Raimondi
che serrano la cerchia quattrocentesca della incisione fiorentina,
dove il bulinista ha raggiunto un linguaggio pittorico a se stante,
ricco di segni e di vibrazioni luministiche,
appoggiate a una gamma chiaroscurale
che suggerisce le più varie emozioni estetiche.

Per questo non ci pare del tutto esatto il giudizio del Longhi
quando giudica il Raimondi «miglior disegnatore che incisore».

Se il disegno resta la base della struttura pittorica,
l’incisione n’è in qualche modo la traduzione cromatica
con l’amplificarsi e il moltiplicarsi dei segni e l’intrigo dei ritmi,
pur senza raggiungere le deformazioni di Morghen.

Ma può affermarsi che con la sua attività incisoria,
declinata sul versante di nostalgia pollaiolesca
questo amore confessato per via indiretta per il ‘400,
Tonino Caputo, non senza sorpresa sua e nostra, possieda la capacità
di trasformare ogni colore manco fosse germinato dall’oro:

tutto diventa oro o almeno reca il ricordo atavico dell’oro, come accade
nelle scenografie quasi irreali per tanta sottile eleganza ai bordi del sepolcro di Sisto IV,
con la lontana riminiscenza e iridescenza dei mosaici bizantini,
ancor più documentati dagli splendori delle tessere aure paleocristiane
dove la figura del Cristo Redentore accampava
nel catino dell’abside della basilica costantiniana.

* * *

Questa moltiplicata fisicità degli oggetti e disparità tematica
come dice espressamente il titolo del quadro Se avessi gli occhi per vederti tutto
e nella elaboratissima e indecifrabile Scatola dei ricordi, si reggono
su uno sforzo gigantesco per collegare persone, figure e paesaggi.

Queste scatole cinesi che comunque le rivolti,
pur dominate da impossibili parallelepipedi,
stanno sempre per il verso giusto
e hanno una unità che non è il «taglio» vasariano,
ma l’aggressività di forme geometriche, sferiche e piane,
come accade in chi pratica il niello.

Ci si accorgerebbe allora ch’è il colore, qualunque colore,
diventato aureo a unificare le più scombiccherate fantasie.

Si dia per questo un’occhiata
alle cinque stampe della cartella dedicate ai Martiri di Otranto:
da qualsiasi parte si voglia guardare, si leggono tutte
come se fossero guidate da un unico centro di prospettiva ottica:
il colore è dappertutto e dappertutto è sempre presente la fantasia niellatrice dell’orafo,
che resta protagonista tramite la virtuosità del bulino.

Il colore non indugia nella descrizione dell’oggetto
e raramente è campito, e se lo è, lo è in modo tale
che il brillio della cellula cromatica traversa la superficie dipinta.

È stato notato, e la osservazione ci sembra coerente
a quanto con altri motivi è stato finora esposto,
che il colore di Tonino Caputo – e colore è il segno del bulino,
l’incavo dell’intaglio, le striature del punteggio,
il puntinismo inventato fin dal ‘500 dal Campagnola
evitando il chiaroscuro all’acquerello,
scatta per germinazione fantastica obbligando quasi a negare l’oggetto.

Si diceva della qualità dell’orafo
e ci sia lecita la preferenza per i nielli apertamente denunciati
alle campiture intonacate di colore.
Caputo è il piccolo Mida della scala cromatica
che tramuta il colore in oro.

Ennio Francia, «Un incisore che tramuta il colore in oro.
Acqueforti e pitture di Tonino Caputo esposte a Castel Sant’Angelo»,
in “L’Osservatore Romano”, venerdì 18 aprile 1986, p. 3.

Foto: Tonino Caputo / leccecronaca.it

Lascia un commento