Mt 5-1-12a

Mt 5-1-12a – Domenica III del Tempo Ordinario – Anno A

 

Mt 5-1-12a – Per quattro domeniche,
a partire da oggi,
mediteremo sul capitolo 5
del Vangelo secondo Matteo.

Questo Vangelo si distingue dagli altri
perché un quarto di esso, cioè 7 capitoli su 28,
è occupato da 5 grandi discorsi,
nei quali Mt raccoglie la predicazione di Gesù,
che gli altri evangelisti organizzano in modo diverso.

Il Vangelo di oggi, detto «delle beatitudini»,
apre il primo dei grandi discorsi,
quello cosiddetto «della montagna».

Mt e Lc 6,20-26

Mt 5-1-12a – Prima di tutto si deve ricordare
che solo Luca riporta un testo analogo al nostro,
con notevoli differenze, però,
sia di numero sia di formulazione.

Luca, infatti, invece che 8/9 beatitudini,
come Mt, ne riporta solo 4
e le affianca con 4 ammonizioni
espresse con il termine «Guai a voi!».

Anche lo stile è diverso:
vivace e drammatico in Luca,
solenne e quasi liturgico in Matteo.

Inoltre, in Lc,
che usa la seconda persona plurale,
le beatitudini appaiono appelli diretti;

in Mt, che usa la terza persona plurale
(fa eccezione l’ultima
che è in seconda persona plurale)
le beatitudini appaiono
solenni proclamazioni universali.

Infine, in Lc, le beatitudini
si riferiscono a situazioni concrete:
povertà, fame, lacrime e persecuzione;
mentre Mt tende a «spiritualizzarle»:
così, in Lc, abbiamo solo «Beati voi poveri»,
mentre Matteo aggiunge «in spirito».

Anche l’ubicazione geografica
è differente nei due evangelisti: in Lc,
dopo essere «disceso in un luogo pianeggiante»,
Gesù si ferma a parlare (6,17);
in Mt, invece, Gesù parla alle folle
dopo essere salito «sulla montagna» (5,1).

«Beati i poveri in spirito…» (vv. 3-12)

Mt 5-1-12a – Matteo ripete per 9 volte «Beati».
Tuttavia, la cosiddetta IX beatitudine,
composta da due vv. (11-12),
funge da conclusione e si differenzia dalle altre
per essere ben più lunga e, inoltre,
per essere rivolta esplicitamente a un «Voi».

Si può allora dire, con la migliore tradizione
attestata già dai santi Ambrogio e Girolamo,
che le beatitudini in Matteo sono 8.

Esse presentano una costruzione analoga:
iniziano tutte con un «Beati»,
seguito dal soggetto («Beati i poveri,
gli afflitti, i miti…»)
e quindi si dà una motivazione,
introdotta da «perché».

Solo la prima e l’ottava beatitudine
hanno la motivazione al presente,
tutte le altre al futuro.

Infine, le beatitudini sono precedute dai vv. 1-2
che le preparano, fornendo alcuni particolari.

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte.
Si mise a sedere e i suoi discepoli gli si misero intorno.
Egli prese a parlare e li ammaestrava dicendo…» (vv. 1-2)

Mt 5-1-12a – In due versetti Matteo riesce a darci
il quadro esterno del discorso di Gesù:
due cerchie di ascoltatori, la folla dietro
e, in primo piano i discepoli;
il monte sul quale Gesù parla;
l’atteggiamento di Gesù;
la qualifica di insegnamento del suo parlare.

Il tutto, però, trascende il puro dato cronachistico.

I discepoli sono certamente i dodici
che hanno fatto e fanno vita comune con Gesù,
ma rappresentano anche i credenti della Chiesa.

La folla sta sullo sfondo,
comunque, è presente come uditrice,
pronta alla fine a stupirsi (Mt 7,28-29).
Essa costituisce la moltitudine
dei potenziali discepoli,
ai quali la Chiesa è mandata in missione
a portare l’insegnamento di Cristo.

Il monte non ha un valore topografico.
Significa il luogo della rivelazione divina.

Mt annota, poi, che Gesù parla stando seduto:
è la posizione del Maestro
e la sua parola ha un timbro autorevole.

Come ultimo particolare,
Mt qualifica il parlare di Gesù come insegnamento.
Il termine è tecnico per indicare
l’interpretazione della parola normativa di Dio
contenuta nelle sacre scritture dell’AT.

«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli» (v.3)

Mt 5-1-12a – Il primo annuncio di felicità riguarda i poveri.
In un tempo in cui tanti soffrono
a causa della crisi economica,
accostare povertà e felicità può sembrare fuori luogo.
In che senso possiamo concepire la povertà
come beatitudine?

Un primo aiuto per una retta comprensione
viene dalla specificazione «poveri in spirito».
Tale specificazione
impedisce una piatta identificazione
tra «povertà» e «mancanza di mezzi».

La povertà economica ha tante cause,
perfino quella di essere frutto di vizio, di indolenza
o di altra colpevole responsabilità personale.
Occorre, dunque, evitare di considerare
la «povertà» solo come «limitazione economica».

«Poveri in spirito» sono coloro che
si svuotano di se stessi e della presunzione
di costruire la propria vita in modo autonomo.
Sono gli umili, ossia non raggomitolati su se stessi,
perché aperti a Dio e agli altri.

Si fidano totalmente di Dio
e si affidano completamente al suo amore.
Seguono Cristo, il quale, per salvarci,
«da ricco che era, si è fatto povero» (2 Cor 8,9),
e, «pur essendo nella condizione di Dio,
svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo»
(Fil 2,7).

Potremmo tradure «poveri in spirito»
liberamente così: «Felici veramente coloro
che sono ricchi di Dio, perché avranno tutto».
E per essere ricchi di lui,
devono lasciargli spazio e tempo.

Da qui viene il senso vero di povertà,
perché la difficoltà ad aggrapparsi unicamente
a un Dio invisibile
spinge a riempire la vita di cose.

La smania di possedere è la macchina infernale
che avvinghia le persone, centrifugandole
con l’illusione che “più cose”
equivale a “più felicità”.

Questa beatitudine è la prima,
non solo perché apre la serie,
ma anche e soprattutto perché contiene
in qualche modo tute le altre,
che ne sono una sorta di specificazione.

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati» (v. 4)

Mt 5-1-12a – L’afflizione è un lacerante dolore
che rode interiormente.
Si potrebbe tradurre anche «coloro che piangono».
La parola denota la gravità della situazione,
anche se mancano dettagli per identificarne la causa.

Un richiamo potrebbe essere a Is 61,2s
dove ci si rivolge agli afflitti di Sion,
scoraggiati perché la salvezza non si attua.
Sono persone che piangono sulla rovina
di Gerusalemme e di tutto il popolo.

Al di là di ogni possibile identificazione,
si può ravvisare in questo gruppo
tutti i veri discepoli di Cristo
che hanno a cuore i problemi del Regno
e che soffrono per una Chiesa
non santa come dovrebbe essere,
divisa e lacerata.

Ma soffrono e piangono soprattutto
a causa dei loro peccati, che rallentano
o impediscono un rinnovamento profondo.

In tale situazione solo Dio può apportare la novità.
Dio non compare esplicitamente nella frase,
ma lo si trova facilmente se si fa attenzione
a ciò che gli studiosi chiamano «passivo divino».

Che cos’è?
È un espediente per evitare
di pronunciare il nome di Dio.
Si sa che gli ebrei nutrono per Dio
un rispetto altissimo, che si manifesta anche
nel non pronunciare mai il suo nome.

Un mezzo per evitarlo, come nel nostro caso,
è quello di trasformare in passiva la frase
che ha Dio per soggetto (per esempio:
da «Dio ha fatto» a «è stato fatto»).
Tenuto presente questo,
la motivazione della beatitudine suona
«Dio li consolerà».

Dio è il grande consolatore.
Lo fu con il suo popolo
attraverso la parola dei profeti,
lo è soprattutto in Gesù Cristo e nel suo Spirito,
chiamato, tra l’altro, «Consolatore».

Il tempo è al futuro – «saranno consolati» –
perché solo nell’eternità beata
ci sarà consolazione piena e definitiva.

«Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra» (v. 5)

Mt 5-1-12a – È probabile che Matteo
si ispiri qui al Sal 37,11:
«I miti avranno in possesso la terra».

Praticamente,
questa beatitudine ripete la prima,
ma con una sfumatura:
essere «poveri in spirito»
è un atteggiamento di fronte a Dio;
essere «miti»
è un comportamento verso il prossimo

Se la povertà è una sofferenza,
la mitezza e una sopportazione attiva,
un patire con forza – che non è un subire –
l’avversione altrui.

Chi sono i miti?
Sono coloro che costruiscono rapporti sociali
sulla base della non-violenza.

Mt ha fatto di Gesù un modello
di questo atteggiamento: «… imparate da me,
che sono mite e umile di cuore» (11,29),
e nel brano dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme,
in cui cita Zc 9,9: «Ecco il tuo re viene a te mite
e seduto su un’asina».

Quest’ultimo riferimento
è particolarmente importante
perché ci permette di capire la promessa
della terra («perché avranno in eredità la terra»):

Gesù entra a Gerusalemme come suo «re»,
ma un re che non prende possesso
della sua terra con forza e violenza,
come i potenti che muovevano guerra,
ma come un «re mite».

La terra promessa ai non-violenti
dev’essere intesa in senso metaforico.
Indica la realtà del regno finale.

«Beati quelli che hanno fame
e sete di giustizia, perché saranno saziati» (v. 6)

Mt 5-1-12a – L’espressione «avere fame e sete» assume
nell’Antico Testamento il valore di «desiderare».
«Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio –
in cui manderò la fame nel paese;
non fame di pane né sete di acqua,
ma di ascoltare le parole del Signore» (Am 8,11)

e ancora:
«Quanti si nutrono di me avranno fame
e quanti bevono di me avranno ancora sete»
(Sir 24,20).

La «giustizia» è una cifra caratteristica di Mt.
Non ha a che fare con la giustizia sociale,
ma esprime, nel contesto di questo Vangelo,
un agire umano
conforme alla volontà e alla Legge di Dio.

Nel nostro brano vi sono due beatitudini
che la riguardano, questa e l’ottava,
e tre insegnamenti su essa (Mt 5,20; 6,1.33).

«Avere fame e sete di giustizia» significa desiderare
di mettere in pratica la volontà di Dio,
seguendo la sua Legge:
è l’atteggiamento nel quale i credenti in Cristo
devono superare addirittura lo zelo dei farisei
(cfr. Mt 5,20).

La promessa per il futuro
parla letteralmente di sazietà:
saranno ricolmati della felicità escatologica.

«Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia» (v. 7)

Mt 5-1-12a – Questa beatitudine
è incentrata sul tema della misericordia.

Vi si indica non tanto un sentimento,
ma una concreta operatività,
gesti di perdono
all’interno dei rapporti ecclesiali (Mt 18,33)
e di aiuto prestato ai bisognosi (Mt 25,35-37).

Una perfetta corrispondenza con il presente
caratterizza la promessa al futuro:
Dio, nel giudizio ultimo,
si mostrerà misericordioso
a coloro che hanno vissuto un’esistenza
di amore misericordioso.

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (v. 8)

Mt 1-12a – Anzitutto occorre capire
il significato biblico della parola «cuore».
Per la cultura ebraica,
il cuore è il centro dei sentimenti, dei pensieri
e delle intenzioni della persona umana.

Se la Bibbia ci insegna
che Dio non guarda le apparenze,
ma il cuore (cfr. 1 Sam 16,7),
possiamo dire anche
che è a partire dal nostro cuore
che possiamo vedere Dio.

Questo perché il cuore riassume l’essere umano
nella sua totalità e unità di corpo e di anima,
nella sua capacità di amare ed essere amato.

Per quanto riguarda invece la definizione di «puro»,
la parola greca utilizzata da Mt è katharos
è significa fondamentalmente pulito, limpido,
libero da sostanze contaminanti.

In che consiste, pertanto, la felicità
che scaturisce da un cuore puro?

La questione tocca soprattutto il campo delle relazioni.
Ognuno di noi deve imparare a discernere
ciò che può «inquinare» il nostro cuore,
formarsi una coscienza retta e sensibile,
capace di «discernere la volontà di Dio,
ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).

Se è necessaria una sana attenzione
per la custodia del creato, per la purezza dell’aria,
dell’acqua e del cibo,
tanto più dobbiamo custodire la purezza
di ciò che abbiamo di più prezioso:
i nostri cuori e le nostre relazioni.

La promessa di questa beatitudine
è che i «puri di cuore» entreranno nel regno
e saranno ammessi alla comunione con Dio
(lo «vedranno»).

«Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio» (v.9)

Mt 5-1-12a – Il termine ebraico tradotto con pace è shalom,
e nel contesto biblico si riferisce al benessere
dell’uomo in tutte le sue dimensioni:
sociale, materiale e spirituale.

Non si tratta, pertanto, di favorire
un irresponsabile quieto vivere,
o di ricercare un’illusoria armonia con tutti,
frutto di innumerevoli compromessi e connivenze.

La pace, per la Bibbia, è un dono,
vale a dire che si realizza solamente
quando ha come destinatari gli altri
e non quando è soffocata
in un’egoistica ricerca di tranquillità personale.

«Operatore di pace» è colui che ha il coraggio di dire
che il fascino della violenza e della guerra
non è la soluzione vera e ultima dei problemi
che affliggono l’umanità.

È colui che, mentre si oppone
all’assolutizzazione della morte,
che impongono il terrorismo e la risposta militare
con ferma decisione, punta su valori affermativi
quali la vita, l’amore, il dialogo,
la formazione e la condivisione.

Certamente, se mi impegno
a essere «operatore di pace» a favore di uomini
e donne che vivono «fuori» casa mia,
ma non faccio nulla per «limare» quegli aspetti
del mio carattere che provocano guerre
«dentro» casa mia, dentro la mia parrocchia,
dentro la mia realtà quotidiana,

questo sarebbe un modo per vanificare
la portate profetica di questa beatitudine.

Agli «operatori di pace» è riservata
la più bella delle promesse:
Dio li considera suoi figli.

«Beati i perseguitati a causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli» (v. 10)

Mt 5-1-12a – L’ottava e ultima beatitudine
ha una prima formulazione simile alle precedenti,
poi è dotata di una espansione
che ne illustra ulteriormente in senso (vv. 11-12).

Che si tratti di un’espansione,
e non della nona beatitudine,
lo si capisce sia dal contenuto,
identico a quello della precedente,
sia dalla formulazione inusitata
con la presenza del «voi»
tipico del discorso diretto.

Soggetto di questo nuovo aspetto della felicità
sono coloro che
«sono perseguitati a causa della giustizia».

La giustizia era già comparsa nella quarta beatitudine,
dove si parlava di coloro che avevano fame e sete
di giustizia (= volontà di Dio).
Ora si prolunga il tema, con una variante.

Se prima era la ricerca della volontà di Dio
che interessava, ora importa la resistenza
in questa stessa volontà,
quando la situazione si fa difficile
e umanamente insopportabile.

Significa che qualcuno ha interesse
a scardinare il nostro rapporto con Dio,
azzerandolo o “rendendolo innocuo”
come lo è per certi cristiani “all’acqua di rose”.
Insomma, cristiani sì, però senza troppo impegno,
e solo quando la voglia e il tempo lo permettono.

Gesù non elude, né sorvola le reali difficoltà
che comporta la scelta cristiana.
Una seria adesione al Vangelo richiede coraggio
e qualche volta perfino eroismo.

«Beati voi quando…» (vv. 11-12)

Mt 5-1-12a – Che cosa significa
essere «perseguitati per la giustizia»
è illustrato in modo solare dall’espansione:
«Beati voi quando vi insulteranno,
vi perseguiteranno e diranno, mentendo,
ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (v. 11).

Gesù ha vissuto per primo questa beatitudine,
dimostrando e insegnando una fedeltà a tutta prova.
I cristiani sono beati
se sanno imitarlo nella piena dedizione,
senza indietreggiare
quando la prova si fa incalzante e la «croce» pesante.

Al v. 12 compare per la prima volta
nel vocabolario di Mt il termine «ricompensa».
E si tratta di una ricompensa «grande»,
dato che essa è «nei cieli».

Si comprende il valore
della beatitudine qui indicata
e di tutto il discorso sulle beatitudini,
quando si fa attenzione
che tutto è orientato verso Dio,
presente nel tempo e nella storia,
meta ultima e definitiva di ogni uomo.

È lui, Padre, Figlio e Spirito Santo
la ricompensa, meta e radice di ogni felicità.

Foto: Cosimo Rosselli, «Discorso della montagna»,
1481-1482, affresco (349 x 570 cm),
Cappella Sistina, Città del Vaticano /
it.wikipedia.org

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