Legge

Legge: Venerdì della XXIX settimana fra l’anno I – Rm 7,18-25a

Legge. La Prima lettura di oggi sembra essere il manifesto pessimistico dell’impotenza umana. Già Ovidio scriveva: «Video bona proboque, sed deteriora sequor» (“Vedo le cose buone e le approvo, ma di fatto seguo le peggiori”). Quindi siamo condannati a renderci conto e a lasciar andare le cose per il loro verso peggiore? S. Paolo conclude il brano con un rendimento di grazie «a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore», in grazia del quale ci è data la possibilità di agire secondo la volontà di Dio.

La questione è trattata dall’apostolo con la consueta complessità e durezza di linguaggio, e può sembrare che la “legge” sia essa stessa causa del male che, di fatto, vorrebbe far evitare ma che concorre a evidenziare. Ma per non cadere in questa impressione è doveroso leggere 7,12: «Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento».

Allora in che senso la “legge” non ha funzionato? Se si pretende di porre nella Legge (quella ebraica) il principio della salvezza, allora non si può che essere delusi. Essa ha una funzione orientativa dei comportamenti secondo la volontà divina; ha anche una funzione “denunciativa” in quanto mette in risalto il comportamento non in conformità alla volontà di Dio. Ma non pretende di essere sorgente di salvezza.

Ciò appare anche dai pochi versetti presi dal Sal 118 che elogia la “legge del Signore”, denominandola in molti modi. In essi si invoca dal Signore “senno e saggezza”: si acquistano meditando e praticando la Legge, ma in verità provengono da lui. Nella Legge (che nel giudaismo equivale a Scrittura, Parola santa) è contenuta la «promessa di Dio al suo servo», ma questi di fatto è “consolato dalla grazia” proveniente dal Signore. La Legge è gioia per il salmista, ma egli “avrà vita” dalla «misericordia di Dio che viene su di lui». Egli non dimentica i “precetti del Signore”, ma chi lo “fa vivere” è il Signore stesso. Se “cerca il volere divino”, egli si protesta suo (“io sono tuo”) e da lui solo invoca la salvezza: “salvami”.

Perciò è chiaro che la polemica paolina nei confronti della Legge è solamente per coloro che ne facevano un assoluto, quasi che essa fosse in grado di salvare quanti si sforzavano di osservarla.

L’esperienza della persona umana lacerata dal peccato

La lettura ascoltata però lascia da parte la polemica precedente per aprirsi a una “confessione” personale e universale.

L'”io” che qui parla «è ogni cristiano che riflette su di sé leggendo ed enucleando la propria esistenza prima di essere “nel Cristo”. Un “io” dunque universale, in cui le singole persone ritrovano la verità della propria esperienza passata e la necessità d’esprimere le nuove acquisizioni intervenute con l’invio del Cristo e dello Spirito, partecipati nella vita attuale del cristiano» (L. De Lorenzi). Espresso in prima persona, è uno sguardo sull’uomo peccatore, reso possibile solo dalla luce della fede. Solo la fede permette al credente di cogliere certi aspetti nella vita dell’uomo peccatore.

La cesura fra retta intenzione di operare il bene (addirittura “desiderio del bene”) e la “capacità di attuarlo” (v. 18) è tale da portare a questa desolata constatazione: «io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (v. 19). La ragione di questa radicale impotenza sembra essere quella che si chiama “alienazione”: vi è un altro (alius) che domina la persona peccatrice. «Il peccato che abita in me» (v. 20), arriva a dire s. Paolo.

Si deve ricordare che nella concezione biblica la persona umana è “abitata”, da Dio o da uno spirito a lui contrario, e che è nella libera volontà umana scegliere da chi farsi abitare. In regime di peccato (è il senso di “legge” nel v. 21) non si sfugge a una lacerante esperienza di impotenza operativa fra il bene visto al quale va il consenso e il male che ha in pratica il sopravvento (vv. 22-23).

Nel v. 25b (non riportato nella lettura liturgica) è riassunto il dramma del peccatore: «Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato».

Si deve bene intendere il linguaggio paolino che con “carne” non designa la parte materiale della persona, ma questa in quanto è dominata dal male. Si vedrà meglio nella lettura di domani.

Per quanto espressa con termini assoluti, la problematica esposta dall’apostolo è quella che tormenta anche ciascun cristiano, pur già redento e ripieno della “giustizia di Dio”: l’incoerenza fra ciò che si pensa e si dice e quello che veramente poi si opera. È dovuto a un limite proprio della creatura contingente, ma è anche il segno che, nonostante la grazia battesimale, la nostra vita non è totalmente aperta alla grazia di Dio.

Luigi Della Torre, «Commento delle messe feriali. Tempo Ordinario, Anno Dispari», vol. 6 Settimana ventitreesima-trentaquattresima, Queriniana, Brescia 1993, pp. 256-258.

Foto: Dal mio profilo facebook

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