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Gesù, quando accadrà questo? – Lc 21,5-11

Gesù, quando accadrà questo?

Luca, nel Vangelo che porta il suo nome, inserisce due discorsi di Gesù. Il primo, definito anche “piccola apocalisse” (Lc 17,20-37), già meditato nei brani di giovedì e di venerdì della 32a settimana fra l’anno, riguarda il destino dei singoli uomini. L’altro, definito “grande apocalisse” (Lc 21,5-36) e che mediteremo, a partire da oggi, fino a sabato compreso, riguarda il destino dei popoli. Il genere letterario è quello escatologico-apocalittico. L’escatologia propone un discorso sulle realtà ultime, definitive. Il termine apocalisse, invece, deriva dal verbo greco apocaluptein, che significa “togliere, rimuovere il velo”. In sostanza si tratta di una ri-velazione.

Il brano di oggi riporta solo una parte della “grande apocalisse” di Gesù (Lc 21,5-11): è un inconveniente, perché in tal modo non si ha il quadro complessivo del discorso di Gesù con tutte le sue articolazioni e tutti i suoi passaggi, e si fa così più difficile il lavoro dell’interprete. Ci si limiterà ad alcune annotazioni più significative, senza addentrarsi nei dettagli esegetici, nei quali si smarriscono gli stessi studiosi di professione. Come si avrà capito, infatti, siamo davanti a una delle pagine più difficili del Vangelo e che, a prima vista, lascia in noi un profondo turbamento.

L’occasione del discorso di Gesù è data dallo stupore manifestato da alcuni dei suoi discepoli davanti alla imponente mole del Tempio (v. 5), che effettivamente era considerato nell’antichità una delle sette meraviglie del mondo: «Chi non ha visto Gerusalemme in tutto il suo splendore, non ha visto nulla di bello nella vita. Chi non ha visto il Santuario nella sontuosità dei suoi addobbi, non sa che cosa sia il fascino di una città», si diceva a mo’ di proverbio fra gli Israeliti.

Gesù, però, sorprende tutti con una profezia agghiacciante: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta» (v. 6).

Comincia così il celebre e difficile discorso escatologico-apocalittico di Gesù, alla vigilia della sua Passione. I temi della distruzione di Gerusalemme e della fine del mondo, in questa pagina, si aggrovigliano e si confondo, rendendone la lettura e l’interpretazione piuttosto ardue.

Alla richiesta poi dei discepoli di «quando» tutto questo sarebbe accaduto e quale ne sarebbe stato il «segno» (v. 7), Gesù risponde prima di tutto mettendo in guardia dalle voci false di gente interessata a creare turbamento, o fanatizzata: «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Voi però non seguiteli» (v. 8).

Successivamente Gesù fa delle affermazioni generiche, in cui non è facile per noi cogliere delle allusioni a fatti precisi (vv. 9-11).

Questo il Vangelo di oggi. Vediamo di capirlo e commentarlo.

La parola di Gesù è forte e inquietante. Ma non c’è da temere, perché ogni parola che viene da Dio è sempre annuncio di una grande speranza.

Affrontiamo oggi questa prima parte del discorso di Gesù che può lasciare in noi un profondo turbamento.

Gesù parla di una fine che si sta avvicinando.

Non facciamo però di Gesù un profeta di sventura.

Che ci sia una fine di tutto lo sappiamo e forse lo temiamo più che in passato per i mezzi di distruzione di cui dispone oggi l’umanità.

Di fronte alle minacce che vengono dal futuro e che già sembrano gravide di pericoli per il presente, ci possono essere atteggiamenti diversi che si trovano richiamati nel Vangelo.

Il primo è quello di coloro che non si rendono conto, o perché sono così superficiali da non saper interpretare la realtà, o perché ritengono più vantaggioso coltivare un facile ottimismo.

Questo atteggiamento di chi preferisce la tranquillità alla verità può essere rappresentato nel Vangelo da quelli che «parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano».

Ammiravano, si compiacevano e non sospettavano (o, meglio, si rifiutavano di pensare) che quel tempio, che rappresentava tutta la gloria della loro religione e della loro nazione, di lì a poco sarebbe stato un ammasso di rovine.

Il secondo atteggiamento è di coloro che invece si inquietano tanto da vivere in uno stato di continua agitazione e si lasciano turbare da tutti i messaggi apocalittici e allarmistici.

Gesù denuncia con forza questo atteggiamento («Non abbiate paura») e ammonisce di non cercare scampo presso quelli che promettono una facile salvezza.

Resta un terzo atteggiamento, il solo che sia meritevole di attenzione: consiste nell’attraversare la notte con gli occhi fissi verso la luce di un nuovo giorno. Questo atteggiamento si chiama speranza.

Perché sperare? È l’argomento dei prossimi Vangeli, e che qui si vuole anticipare.

Non perché ci siano ragioni umanamente convincenti. Se cerchiamo ragioni plausibili possiamo coltivare l’ottimismo, che però non coincide con la speranza, anzi è ben lontano dal possedere la forza e la tenacia della speranza.

C’è una sola ragione per sperare.

La speranza non si fonda su qualcosa, ma su Qualcuno che è venuto a parlarci di salvezza pur nello scatenarsi di tante forze ostili («Nemmeno un capello del vostro capo perirà») (v. 18).

La nostra speranza è affidata a un Dio che ha voluto rivelarsi a noi come amore che crea e rigenera incessantemente la vita.

C’è stato chi ha detto che tutto dipende dal caso e dalla necessità.

Anche il credente può parlare di caso, ma con quel significato che gli attribuiva il grande mistico Silesius: «Il caso è Dio quando viaggia in incognito».

In conclusione, nel Vangelo di oggi, Gesù descrive i segni che accompagneranno la distruzione di Gerusalemme, provocandoci magari una sensazione di turbamento. Nei Vangeli dei prossimi giorni, l’attenzione si sposta su ciò che la comunità cristiana sarà chiamata ad affrontare.

Foto: Distruzione del tempio di Gerusalemme / nondisolopane.it

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