Chiamata

Chiamata – Mt 4,18-22

Chiamata.

Nel Vangelo di oggi Matteo racconta la chiamata (vocazione) dei primi quattro discepoli di Gesù. Gesù, «saputo che Giovanni (il Battista) era stato arrestato, si ritira nella Galilea e, lasciata Nazaret, va ad abitare a Cafarnao… Da allora comincia a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino. Mentre cammina lungo il mare di Galilea vede due fratelli…» (Mt 4,12-13.17-18).

Quello che segue non è il resoconto della chiamata dei primi apostoli (i quattro evangelisti narrano il fatto in modo assai diverso l’uno dall’altro), ma è un brano di catechesi che vuole far comprendere cosa comporta per il discepolo dire sì a Cristo che invita a seguirlo. È un esempio, un’illustrazione di cosa significhi convertirsi.

Le parole che Gesù rivolge ai primi quattro discepoli: «Seguitemi» (v. 19), «li chiamò» (v. 21), sono le parole tecniche usate per definire il discepolato più stretto. Anche fra i giudei, il vero discepolo si formava alla sequela del suo maestro, e la sua vita si plasmava accettando il giogo che il maestro gli imponeva (Mt 11,29; 23,4).

Vi è un parallelo fra il discepolato giudaico e quello cristiano: entrare nella scuola d’un maestro, vivere con lui, accettare i suoi insegnamenti e rinunziare a molte cose. Sappiamo di alcuni discepoli giudei che rinunziarono persino al matrimonio per potersi dedicare più interamente allo studio della legge nella scuola di un maestro famoso.

Ma, insieme con queste rassomiglianze, vi sono anche profonde differenze. Nel discepolato giudaico l’iniziativa partiva dall’alunno che intendeva «immatricolarsi» in una determinata scuola; nel discepolato cristiano l’iniziativa parte sempre da Cristo che chiama. Nelle scuole dei giudei, i discepoli divenivano tali con la speranza di cessare, un giorno, di essere discepoli per trasformarsi anch’essi in maestri; il discepolato, nella scuola di Cristo, è permanente. La sorte che toccava al discepolo giudaico poteva essere molto diversa da quella del suo maestro; il discepolo cristiano deve accettare la sorte che toccò al suo Maestro: bere il calice che egli bevve.

La chiamata dei discepoli avviene non in una cornice sacra, come può essere quella del tempio di Gerusalemme con la sua ieratica solennità, ma lungo le rive concitate del «mare di Galilea», il pescoso, volubile lago di Cafarnao, alimentato dal Giordano.

E ciò rientra nello schema abituale delle chiamate quali ci vengono riferite dall’Antico Testamento. Mosè è chiamato mentre sta pascolando il gregge del suocero Ietro. Gedeone sta battendo il grano sull’aia di casa. Davide sta pascolando le pecore del padre. Anche Amos fa il pecoraio a Tekoa.

Gesù passa e chiama nel contesto di occupazioni ordinarie. Levi sta seduto al banco delle gabelle. I discepoli di cui parla il Vangelo di oggi non stanno digiunando o pregando, ma sono intenti al loro umile, duro mestiere.

La chiamata dei primi discepoli si può sintetizzare con due verbi: «vide» e «disse». Uno sguardo e una voce.

Il «vide» non è una notazione banale. Si tratta di uno sguardo che mette a fuoco un individuo, uno sguardo che elegge, sceglie. Non è uno sguardo distaccato, freddo. Il «vide», qui, esprime una nota di affetto.

Il «disse» sottolinea l’importanza della voce, di quella voce. Una voce con un timbro unico, inconfondibile. Per cui il discepolo capta quella voce unica, facendo tacere tutte le altre.

Comunque, nella chiamata, ciò che fa il discepolo è soltanto una risposta: «Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono… Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono» (vv. 20.22), abbiamo sentito dirci per ben due volte dall’evangelista Matteo.

C’è come una progressione in questo “abbandonarsi” dei futuri Apostoli a Gesù: prima le reti, poi la barca, infine il padre. È il distacco da tutto, anche dalla famiglia, e più ancora da se stessi. Tutto questo non si può fare, se la «conversione» non opera un rovesciamento totale del nostro essere, creando in noi un’esistenza diversa.

Ma è soltanto una storia del passato quella che Matteo ci narra in questo Vangelo, oppure una proposta di vita che egli offre a tutti i lettori del Vangelo che porta il suo nome?

È chiaro che, descrivendoci quella prima chiamata, egli intende proporre anche un modello di risposta al fondamentale appello alla fede e a tutti gli altri infiniti appelli che Cristo rivolge agli uomini.

La vita cristiana è risposta al manifestarsi della grazia, non decisione autonoma. Se mi decido, è perché sono stato sollecitato in questo senso da Qualcuno che si è deciso nei miei confronti. La chiamata cristiana non è una conquista. Ma un essere conquistati.

La risposta alla chiamata di Gesù è espressa ancora con un verbo: «lasciare». La decisione si manifesta con un distacco: dalle reti, da un mestiere, dalle cose, dai legami familiari, da un presente.

Cristo deve prendere il posto delle cose e delle persone. Si tratta di fargli spazio.

Non c’è risposta alla chiamata che non si traduca in una separazione, in una rinuncia, in un allontanamento. E queste operazioni non sono mai indolori. E neppure si possono considerare compiute una volta per sempre. Ci sono distacchi (soprattutto da se stessi), tagli da compiere ogni giorno.

Tuttavia non bisogna mai separare il verbo «lasciare» dal verbo «seguire». Lasciare e seguire sono due atti di un gesto unitario. Non si lascia per lasciare. Si lascia per seguire. Si lascia per non essere più incurvati in sé, ma per uscir fuori insieme a Cristo, per muoversi dietro a Cristo.

Bisogna perciò stare attenti a non porre l’accento soltanto sul «lasciare».

Discepolo non è uno che ha abbandonato qualcosa, ha rinunciato a qualcosa. È uno che ha trovato Qualcuno. La perdita è abbondantemente assorbita dal guadagno. Il distacco non è il fine, ma la condizione della «sequela», che qualcuno traduce con «imitazione». Si tratta di percorrere la stessa strada di Cristo, fare le sue stesse scelte, ripetere i suoi gesti, assumere i suoi pensieri e i suoi atteggiamenti, ispirarsi ai suoi criteri, avere le sue preferenze.

Ma ciò che caratterizza il discepolo è soprattutto l’atteggiamento di fede. La chiamata dei discepoli, infatti, non è un invito a sottoscrivere, essenzialmente, una lista di verità da credere. È una chiamata a «fidarsi e affidarsi a una Persona». Fidarsi e affidarsi totalmente a questa Persona, stabilire un legame, una relazione personale e vitale con Cristo.

Fede non significa, principalmente, «credere che…». Ma aderire al «Signore tuo Dio». Fidarti e affidarti a Lui senza chiedere troppe spiegazioni.

Foto: Domenico Ghirlandaio, Chiamata dei primi apostoli (1481), Cappella Sistina, Vaticano, Roma / it.wikipedia.org

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