Di Nicola: A carabinieri e polizia dico
che quando un uomo picchia la moglie non è un “litigio”
La giudice Paola Di Nicola:
dubito dell’efficacia
dei centri di recupero
per uomini maltrattanti
Di Nicola – «La violenza maschile
impedisce alle donne di far germogliare
le proprie straordinarie ricchezze,
viene falcidiata la possibilità
di diventare persone intere,
autonome, forti, competenti.
Lo vedo nelle scuole
quando chiedo alle ragazze
quale sia la reazione dei loro fidanzati
quando escono con le amiche;
alcune rispondono
di non avere il permesso,
e magari stanno sognando
di diventare chirurghe o astronaute.
Il possesso maschile
scambiato per amore,
questo è il problema».
Paola Di Nicola è la prima
magistrata in Italia
ad aver voluto
la dicitura “la giudice”
sugli atti che firma
e da tempo riflette
sui talenti perduti
delle donne vittime
di un’impostazione culturale
che le schiaccia
anche nelle aule di tribunale.
«I reati di natura sessuale
sono gli unici nei quali
si mette in dubbio la testimonianza
di chi ha denunciato.
Per una rapina
non incolperemmo mai il tabaccaio,
per uno stupro invece
vengono ritenute lecite
domande come
“aveva bevuto?”».
***
Di Nicola, giudice
al tribunale penale di Roma
e figlia a sua volta
di padre magistrato,
da poco tempo ha voluto acquisire
anche il cognome della madre
– Travaglini –
«che ha scelto di fare la casalinga
e dedicarsi completamente a noi».
Nonostante questo lampante esempio
di vita famigliare per lunghi anni
non aveva posato gli occhi sulla disparità:
«Finché non dovetti interrogare
un boss della camorra a Poggioreale
durante l’emergenza rifiuti in Campania.
L’uomo si trovava in carcere
per effetto di un mio provvedimento
e durante il colloquio
mi lanciava occhiate sfrontate
per ristabilire il suo potere maschile.
Mi stava dicendo:
sei una donna
e perciò non riconosco
la tua autorità istituzionale.
Uscii dalla cella
con la voglia di capire
la storia delle donne magistrato».
***
Di Nicola – Fino al 1963
era vietato alle donne
entrare in magistratura,
quello che colpisce è la motivazione:
«L’unico mestiere
che l’Assemblea costituente
reputò inadatto
alle persone di sesso femminile
è proprio il mio.
Le donne potevano diventare
presidente della Repubblica
ma non giudice
perché a loro parere unanime
irrazionali e preda delle emozioni:
l’attività interpretativa delle leggi
dà forma alla struttura della collettività,
affidarlo alle donne
era ritenuto pericoloso
e tuttavia ci furono donne coraggiose
che lottarono e fecero ricorso
alla Corte costituzionale
per poter fare il mio lavoro».
***
Di Nicola – Stereotipi e pregiudizi
sfavorevoli al sesso femminile
che continuano
un pesante lavoro di esclusione:
«La mia consapevolezza si è rafforzata
durante i processi per violenza,
nelle donne vittime
vedevo la mia atavica esclusione,
ho dovuto battagliare soprattutto
per l’adozione
di un linguaggio differente:
a polizia e carabinieri ripeto sempre
che se un uomo picchia la moglie
non si tratta di “litigio”,
e quante volte ho dovuto leggere
rapporti delle forze dell’ordine
nei quali viene scritto
“abbiamo tentato di portare pace
tra moglie e marito”,
laddove nessun agente
penserebbe di riportare la pace
tra rapinatore e negoziante».
Le parole
come riflesso di una cultura
sono poi entrate nell’ultimo libro
di Paola Di Nicola,
La mia parola contro la sua
(ed. HarperCollins),
frutto di una paziente ricerca
dei pregiudizi nascosti
anche nelle sentenze.
***
Di Nicola – Poi è arrivata la riflessione
sulle ragioni di questa violenza,
pervasiva e nelle parole della giudice
«la più democratica che esista
perché investe uomini
di qualsiasi ceto sociale
e livello di istruzione»,
e le ragioni si innestano
nel puro abuso di potere:
«Li vedo gli imputati
di violenza contro le donne,
li interrogo,
non ammettono le proprie responsabilità
e anzi accusano la donna
di aver scatenato la loro violenza
attraverso comportamenti inappropriati.
Non riconoscono nemmeno il bene
di un rapporto basato sull’amore,
e cioè un rapporto paritario,
poiché intendono la virilità
soltanto come uno strumento
di affermazione del potere
sulla moglie o sulla compagna.
In fondo somigliano ai mafiosi
che vivono isolati nelle grotte
eppure comandano una regione intera.
Quando questa donna si ribella
e decide di andarsene
arriva la violenza più bestiale:
gli uomini che compiono un femminicidio
vogliono cancellare la persona
che ha messo in questione la loro virilità,
è spaventoso ammetterlo
ma per loro l’uccisione
diventa un atto liberatorio».
***
Di Nicola dubita dell’efficacia
dei centri di recupero
per uomini maltrattanti:
«Non si tratta di persone
con problemi psicologici
o patologie psichiatriche,
il discorso è tutto culturale:
a questi uomini va insegnato
che la relazione benefica
e amorosa con una donna passa
soltanto attraverso il riconoscimento
della parità tra i generi».
Difficile?
«Sono ottimista
specialmente per quanto riguarda
le nuove generazioni.
Le ragazze capiscono
che la loro libertà è preziosa,
i ragazzi devono avere modelli positivi.
I primi sono le loro madri:
per educare un uomo
a rispettare le donne
devono soltanto rispettare se stesse
essendo autonome
e coltivando i propri talenti.
Un lavoro di lungo periodo,
eppure sono fiduciosa».
Laura Eduati, «A carabinieri e polizia dico
che quando un uomo picchia la moglie
non è un “litigio”», in “Donne Chiesa Mondo”,
Mensile de “L’Osservatore Romano”,
ottobre 2019, n. 83, pp. 12-13.
Foto: Giornata contro la violenza sulle donne /
icsmaldoneangri.edu.it