Sap 3

Sap 3,1-9 – Commemorazione dei fedeli defunti – Terza Messa

 

Introduzione

Sap 3 – La Bibbia, nel libro della Sapienza,
dà la parola agli increduli:
«Siamo nati per caso
e dopo saremo come se non fossimo stati…
Non c’è ritorno alla nostra morte» (Sap 2,2.5).

Occorre confessare che, su quest’ultimo punto,
l’esperienza costante, universale dà ragione agli increduli.
È pure vero che la morte ci appare come uno scacco,
come una fine.

E quando la morte porta via qualcuno che amiamo,
che occupava un posto importante
nella nostra vita quotidiana, benché siamo credenti,
la parte di incredulità che è in fondo a ciascuno di noi
fa sentire la sua voce e mormora questa tentazione:
«Siamo nati per caso
e dopo saremo come se non fossimo stati…».

Sap 3 – Scopo della nostra celebrazione

Noi siano qui al fine di respingere questa tentazione;
è il significato dell’assemblea di preghiera
che qui adesso ci riunisce.

Facciamo questo,
mettendoci in ascolto della Parola di Dio,
e più precisamente della prima lettura
tratta dal libro della Sapienza (Sap 3,1-9).

Sap 3 – Dio ha creato l’uomo per l’immortalità

«Le anime dei giusti è nelle mani di Dio,
nessun tormento li toccherà.
Agli occhi degli stolti sembrò che fossero morti
e la loro fine fu considerata un castigo
e la loro partenza da noi una distruzione;
essi, invece, sono nella pace» (Sap 3,1-3).

Preso alla lettera, il testo sembra affermare
l’immortalità di un’anima che, separata dal corpo,
vive beatamente presso Dio. In realtà,
il soggetto dell’intero testo è al maschile (“essi”).
L’autore sta cioè parlando dei giusti,
non delle loro anime.

Il termine “anima” porta qui con sé
una concezione tipica della Bibbia di Israele:
si riferisce all’intera persona, all’essere umano
inteso secondo la sua dimensione interiore.

Sono dunque i “giusti” ad essere nelle mani di Dio.

Il “tormento” che non li toccherà
si riferisce da un lato alla persecuzione
che gli empi hanno scatenato contro di loro (cf Sap 2,10-20),
dall’altro alle punizioni divine
che i giusti sfuggiranno dopo la loro morte.

Ma più importante, per noi,
è ciò che l’autore dice nei vv. 2-3.
Sembravano morti, ma sono invece nella pace.

Come sarebbe a dire che “sembravano morti”?
Quando uno è morto, è morto.
Il libro della Sapienza gioca qui
su una visione ambigua della “morte”.

La vera morte non è per lui la morte fisica,
che in realtà tocca a tutti, buoni o cattivi.
La morte fisica non è tuttavia vera morte;
per i giusti, infatti, è passaggio all’essere nella pace,
al vivere con Dio.
Per i malvagi, invece, la morte fisica sarà preludio
di una morte ben più grave, quella eterna.

Solo chi guarda le cose in superficie (gli “stolti”)
non si accorge che la morte fisica
non è affatto l’ultima parola della vita.
E tende a definire la morte con eufemismi
come “fine” o “partenza”;
chi non sa vedere oltre, non comprende
che dietro la morte fisica c’è l’ingresso nella pace.

Il libro della Sapienza non ci dice
in che cosa consista questa “pace”;
ma il termine, tipicamente biblico,
è già sufficiente per suggerirci
che la vita continua in una situazione di pienezza e di gioia.

Sap 3 – La sofferenza ha un valore?

«E benché agli occhi degli uomini [i giusti] siano stati puniti,
la loro speranza era piena di immortalità.
Per una piccola correzione, riceveranno grandi benefici,
perché Dio li ha messi alla prova
e li ha trovati degni di sé:
li ha verificati, come oro nel crogiolo
e li ha accolti, come un sacrificio completo (Sap 3,4-6).

In questi vv. che seguono, l’autore del nostro testo
prova a riflettere su un mistero ancora più grande.
Certo, la morte dei giusti è passaggio alla vita.
C’è per il giusto una speranza “piena di immortalità”.

Resta però il fatto che essi,
durante la loro vita fisica, hanno sofferto.
Che senso ha pertanto una tale sofferenza?
Il male, il dolore, la malattia, la violenza,
come possono essere accettati?

Il nostro autore osa dare tre risposte.

La prima è relativa al fatto
che ogni sofferenza può, in qualche modo,
essere vista come una “correzione” ricevuta da Dio:
è l’idea – di per sé non banale – che anche il giusto
deve saper accogliere la sofferenza
come accoglierebbe un rimprovero
o addirittura una punizione da parte dei suoi genitori.

La seconda è che la sofferenza
può essere considerata una prova
che mette in luce il vero valore di una persona
e la rende così degna di Dio;
nella sofferenza, infatti, si vede che persona sei.

La terza è che la sofferenza
si può trasformare in un “sacrificio” gradito a Dio,
qualcosa che viene offerto al Signore
al posto delle vittime offerte per il sacrificio.

Osserviamo però come ciascuna di queste tre risposte
contenga in sé un germe di verità,
ma nessuna può spiegare in modo definitivo
il senso profondo della sofferenza.

Per il cristiano, una risposta giungerà solo
attraverso la croce di Cristo.
Il mistero della sofferenza non trova altra logica
se non in quella di una vita donata per amore.

Sap 3 – I fedeli nell’amore

Ritornando al libro della Sapienza,
nei tre versetti che seguono
il testo ha ancora qualcosa da dirci.
«Per questo, nel giorno in cui verranno visitati,
[i giusti] risplenderanno
e correranno come scintille in un canneto.
Governeranno le nazioni e domineranno i popoli
e il Signore regnerà su di loro per sempre.
Quelli che hanno confidato in lui comprenderanno la verità;
i fedeli nell’amore resteranno vicini a lui,
perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti» (Sap 3,7-9).

Il soggetto del v. 7 sono ancora i giusti,
immaginati dopo la loro morte.

Con immagini prese dai libri profetici
e con un linguaggio di stile apocalittico,
il nostro testo immagina i giusti dopo la loro morte
in una situazione di vita nuova.

L’idea della luce e delle scintille
è una descrizione poetica dello stato dei giusti
nella loro nuova situazione,
dopo la morte fisica.

I giusti governeranno su quel mondo
che li aveva rifiutati (cf Sap 3,8)
e a loro volta avranno il Signore come re.

Si immagina una realtà futura
nella quale l’ingiustizia e la violenza spariranno,
per far posto solo a Dio e al suo regno.

A Sap 3,9 si capisce che i giusti
sono anche coloro che si sono fidati di Dio,
che sono rimasti fedeli a lui nell’amore.

Dunque giustizia, fedeltà a Dio, amore,
sono virtù che garantiscono agli esseri umani
una vita senza fine.

Anche in questo caso, l’autore,
consapevole della novità della sua proposta,
non entra nei dettagli.

Non ci dice, se non per immagini,
in che cosa consisterà la vita oltre la morte fisica,
se non un restare vicini a Dio.

L’ultima parte del v. 9 ci suggerisce
che i giusti e i fedeli sono anche “santi” ed “eletti”;
“santi”, in quanto appartenenti a Dio;
“eletti”, in quanto scelti da lui.

La vita con Dio non è soltanto
il frutto della condotta umana,
ma anche e soprattutto
un dono gratuito di Dio stesso,
della sua “grazia”, e della sua “misericordia”.

Per chi si abbandona all’amore di Dio,
la vita acquisterà un senso
e la “visita” di Dio non metterà più paura,
ma anzi riempirà di speranza.

Foto: William-Adolphe Bouguereau,
Il giorno dei morti, olio su tela, 1859,
Musée des Beaux-Arts di Bordeaux, Francia /
nicedie.eu

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