Gianni Celati

Gianni Celati. Un ricordo di Gianni Celati
Il cappellaio matto della letteratura italiana

Gianni Celati. Di Gianni Celati
morto a Brighton nella notte tra il 2 e il 3 gennaio scorso,
molto si è scritto e molto si scriverà, per fortuna.

Ma non sarà tuttavia facile riassumere la sua vita
e le sue opere in un solo paragrafo di Wikipedia,
perché il recensito ha, spesso e volentieri,
disorientato lettori e aspiranti biografi,

piuttosto abile a far perdere le sue tracce
anche in quel mondo accademico
che pure è stato il suo habitat naturale per molti anni
(al Dams di Bologna dal 1973 all’84,
tuttavia ha insegnato anche in molti altri atenei,
tra cui Caen e Providence)
complicando la vita ad allievi ed epigoni.

Ai posteri ha lasciato sorprendentemente
soprattutto una selva intricata
di scritture e riscritture degli stessi testi,
esplorazioni a ruota libera di generi diversi
sovrapposti o mescolati insieme;

inoltre romanzi picareschi intessuti di metafisica,
e anche visioni surreali suggerite dalla Musa podalica
che condivideva con il poeta Valentino Zeichen
(ovvero, la necessità di camminare a lungo
prima di scrivere un libro).

Sempre accuratamente rifuggendo tuttavia da scuderie,
corporazioni e manifesti letterari,
dichiarazioni di intenti, avanguardie, retroguardie,
impalcature strutturaliste di breve respiro,
scegliendo invece di essere fedele a quella
che chiamava la sua amata “critica irrazionale”.

Gli elenchi di libri servono a poco,
trattandosi di Celati,
raccontano poco di lui, a parte i titoli
che ci danno perlomeno
un assaggio dei temi a lui più congeniali:

da Narratori delle pianure (Feltrinelli, 1985)
a Costumi degli italiani (uno e due, entrambi editi da Quodlibet)
senza dimenticare Recita dell’attore Attilio Vecchiatto
nel teatro di Rio Saliceto (Feltrinelli, 1996)
e le tante (bellissime) traduzioni da Melville e Swift
e il più recente Conversazioni del vento volatore (Quodlibet, 2011).

Verosimilmente l’immagine che meglio descrive
il suo avatar da saltimbanco delle parole
è il vestito da cappellaio matto
che scelse di indossare nel 1976 a Bologna,
durante uno spettacolo di teatro di strada

(o verosimilmente sarebbe meglio chiamarlo
un flash mob ante litteram)
dedicato ad Alice nel paese delle meraviglie,
testo letto integralmente l’anno seguente
con i suoi studenti.

Un capolavoro di metodica follia
che ben racconta il suo terrore
di restare imprigionato in un ruolo,
di farsi imbalsamare nell’organigramma di un’istituzione,
“musealizzato” già in vita.

La paura di finire dentro la trappola
dell’“archeologia istantanea”,
malattia endemica nella nostra epoca,
tanto impegnata a celebrare sempre e solo se stessa
da non essere più capace di valutare e cestinare niente.

Anche le leggendarie,
lunghissime telefonate che scambiava con Calvino,
appuntamento abituale per entrambi,
ci parlano di questa fobia;
erano infatti telefonate, non lettere, “parole in volo”
espressamente al fine di evitare la futura imbalsamazione filologica
di un normale dialogo tra amici.

Scripta manent non è sempre dunque un destino
da augurare ai propri testi,
e lo scrittore ferrarese di questo era ben consapevole.

Il 2021, poi con le sue mille celebrazioni
per i settecento anni dalla morte di Dante
ha fatto affiorare anche un Gianni Celati sconosciuto ai più,
legato all’Alighieri da un rapporto
che assomiglia più all’amicizia
che ad una generica ammirazione.

«Dante – scrive Celati – è sempre stato come un fantasma
che mi sussurra “Pensa all’aldilà
e vedrai come si immaginano meglio le cose!”».

Non a caso Peter Kuon nel suo saggio
sulle riscritture novecentesche della Commedia,
Sulle spalle di Gerione
(Roma, Carocci editore, 2021, pagine 294, euro 29)
cita Celati due volte:

il suo Lunario del paradiso
(dove un io dantesco narra le sue avventure giovanili,
in compagnia di una Beatrice superba e inaccessibile,
un Virgilio chiacchierone e poco affidabile,
un paradiso terrestre ambientato nella periferia di Amburgo)

e Garbetto detective,
uno strano racconto che suona adesso
come un testamento involontario,
ambientato in un hinterland lombardo desolato e desolante,
punteggiato di discariche,
impantanato nel traffico.

«La tangenziale ovest al tramonto – si legge inoltre
in uno dei passi più belli del testo –
con le alte lampade ad arco giallo,
era un panorama infernale in piena regola.

Mi chiedevo come li avrebbe sistemati Dante,
nel suo inferno, i nostri dannati moderni.
Verosimilmente li avrebbe trasformati in bestie chimeriche,
con i corpi saldati alle loro vetture,
e costretti per l’eternità a guidare
insultandosi l’un con l’altro
al fine di superarsi inutilmente».

In fondo, «ci vuole una preparazione perfetta
per essere sbadati e incoerenti»
(copyright Davide Bregola,
nella sua Passeggiata con uno scrittore incantato).

«Le opere di Celati – scriveva Bregola, prima di sapere
che le sue parole avrebbero avuto il tono di un obituary –
ritornano ciclicamente nella mia testa in modo carsico.
Quando ricompare Celati prendo i libri e leggo.

In questo momento sto leggendo saggi degli anni Settanta
in cui l’autore parla principalmente di mimi,
teatro, voce, giullari e trobadori.
A cosa mi serviranno? Serviranno per tenere un tono di scrittura,
serviranno per portare l’immaginazione più in là
di questo sguardo limitato dalla contingenza,
dai tempi, dall’ascendente che hanno i media nella mente.

Serviranno per essere più consapevole
dei miei limiti di pensiero.
Oppure non serviranno a nulla,
ma quel nulla sarà comunque interessante».

Silvia Guidi, «Il cappellaio matto della letteratura italiana.
Un ricordo di Gianni Celati», in
“L’Osservatore Romano”, martedì 4 gennaio 2022, p. II.

Foto: Gianni Celati / ilgiornale.it

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