«L’arte dell’agricoltura» di Columella (Lucio Giunio Moderato Columella) che l’editore Einaudi ci offre (Collana «I Millenni»), nella traduzione chiara e precisa di Rosa Calzecchi Onesti, non è certamente libro che possa essere di grande utilità agli agricoltori di oggi, che in fatto di agricoltura ne sanno un pochino di più di un pacifico gentiluomo di campagna dei tempi dell’imperatore Nerone di piuttosto infausta memoria.
Anacronistico«L’arte dell’agricoltura» di Columella, come ristampa? Ma no! Sono pagine graditissime dagli intellettuali costretti a vivere in città. Un libro dalla lettura riposante in momenti così agitati e in un certo senso utilissima come benefico farmaco per molti nervi… Non è dunque il caso di tormentarci pensando fin dove l’industria (o l’uomo) è arrivata ad inquinare l’aria, l’acqua, il terreno, ecc., neppure quando vediamo «L’arte dell’agricoltura» esposta accanto a un grosso volume sull’ecologia in una vetrina di una grande libreria milanese. Tutt’al più si emette un nostalgico sospiro. Così come ci sembra un lungo, nostalgico sospiro quello di Carlo Carena il brillante prefatore, e intelligente annotatore, dell’opera o, meglio, «capolavoro» (il termine non è sprecato) columelliano.
Chi scrive conosce personalmente Carlo Carena, il filologo e studioso dell’antica civiltà greco-latina, e può dire che mai come in questo caso il prefatore si identifichi con l’autore. E ci viene da sorridere, pensando con quale gioia egli si sia messo a tavolino per scrivere la sua bella e commossa introduzione al libro vecchio di secoli per il piacere del lettore del nostro tempo. E pensare poi che, chi ha seguito gli studi umanistici, anche se da tempo li ha abbandonati, può concedersi il piacere di confrontare la versione nitida e pura di un consolante passo con il testo latino stampato a fronte.
Tecnica agraria ed elevazione dello spirito
Ma forse tutto questo non c’entra (o al contrario c’entra) con il contenuto del libro che è, ci sembra, di carattere tecnico. Tecnico anche se nessuno tuttavia può negare che la sua lettura è nel medesimo tempo da intendersi come elevazione dello spirito. Come sembra il Carena suggerisca. Anzi, il prefatore stesso, e non crediamo di sbagliare, leggendo «L’arte dell’agricoltura», mentre percorreva con l’autore la sua magnifica proprietà nella zona Nomentana, doveva rievocare di certo i dolci declivi del suo ritiro ai margini del Cusio. Lì trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza. Oh, bei boschi di faggi e di castagni! Certo la campagna romana, alle porte dell’urbe neroniana, doveva essere altra cosa, ma la poesia molte cose trasforma e Columella era poeta.
Molti poi, leggendo «L’arte dell’agricoltura», riandranno sicuramente a Virgilio, Catone, Varrone e magari a Lucrezio a proposito o a sproposito, a me invece s’è affacciato alla mente quel paese d’utopia che è «Erewhon». E non si sorrida. Con una differenza forse, che il godimento che il «countryman» Columella mi procura è più pacato, più confortante, perché il suo libro è più semplice, più sincero di quello dell’autore di «Erewhon», di Butler insomma, il cui prodotto a ben riflettere è molto più abilmente sofisticato. Ma lasciamo.
Buoni consigli ma anche strani innesti
Lasciamo e soffermiamoci ancora un momento su queste lontanissime e pur ancora tanto fresche pagine. Quelle ad esempio che trattano della coltivazione degli alberi. Curiosissime, e non solo. Qui sì c’è qualcosa che ancor oggi ci può essere d’utilità. Un servizio all’ecologia.
Per quanto concerne invece la coltura della vite, nulla è cambiato. Quello che suggerisce il bravo gentiluomo di campagna Columella era poi quello che mettevano in opera i nostri nonni contadini, anche se ai pronipoti poco serve ragionare di vitigni scelti con cura e con maggior cura coltivati, dal momento che hanno abbandonato la vigna per la fabbrica.
Buone cose dice, ed utili, per la coltura dei fiori, del citiso, delle viole e delle rose. Eccellenti consigli per i nostri giardinieri.
In quanto a quello che riguarda la pratica degli innesti, si potrebbe fare uno stralcio e passarlo all’editore Hoepli, perché ne faccia un volumetto da inserire nella sua collana di manualetti pratici. Tutto ancora validissimo.
Ma vi è anche qualche amenità. L’innesto dell’olivo sul fico, ad esempio. Si pratica forse ancora? Ai tempi di Columella doveva essere frequente, sebbene l’autore non dica con quali risultati. Che frutto ne poteva uscire? Quale sapore poteva avere? Da mangiarsi o per trarre una certa qualità d’olio? Rimaniamo nella curiosità.
A lettura terminata de «L’arte dell’agricoltura» di Columella, ripetiamo la battuta finale del volterriano Candido che il prefatore ci ricorda: «Il faut cultiver son jardin!». Sì, è una buona operazione ecologica. E possiamo davvero dire grazie al dimenticato Columella.
Giuseppe Rigotti, «Columella romano nei campi di ieri», in “Avvenire”, giovedì 16 marzo 1987, p. 9.
Foto: Lucio Giunio Moderato Columella, «L’arte dell’agricoltura» / libreriagrandangolo.it