Speranza

Speranza (La) con cui entrare nel nuovo anno
Non possiamo accontentarci

Speranza. «Anno: Periodo
fatto di 365 delusioni».
Così recita la voce “Anno”
nel sarcastico Dizionario del diavolo,

opera di uno scrittore, giornalista
e vagabondo statunitense, Ambrose Bierce
di cui si ignora precisamente
la data della sua scomparsa,
verosimilmente nel 1914,
sui campi di battaglia
della guerra civile messicana.

La frase è ovviamente provocatoria
e ha verosimilmente il merito di smorzare
non solo la retorica degli auguri di rito,
ma anche le illusioni della propaganda
pubblicitaria e politica
e pure l’enfasi
di una religiosità solo consolatoria.

È, invece, necessario inoltrarci
sul terreno sassoso
dei giorni e delle opere
con uno sguardo meno trasognato
e con progetti più realistici.

Detto questo, guai però
a seguire una deriva pessimistica,
alimentata anche dalla marcia incessante
della pandemia e dalle crisi sociali.

Infatti, quando la bufera si sarà placata,
non sapremo
come siamo riusciti ad attraversarla
e neppure se sia cessata davvero.

Ci sarà, comunque, una certezza:
usciti finalmente da quella tempesta,
non saremo più gli stessi
di quando vi siamo entrati.

Guai, allora, a estinguere completamente
dal cuore ogni desiderio e attesa,
a spegnere del tutto ogni sogno:
si perderebbe così la voglia di vivere
e si strapperebbe dall’anima
anche il seme della felicità.

A scavare in profondità
nella società, si allarga invece
l’area dell’indifferenza rassegnata,
riguardo alla quale
papa Francesco ha coniato
il folgorante motto
della «globalizzazione dell’indifferenza».

Essa è ovviamente più estesa
di quella sanguinaria della violenza
mai sazia di vittime,
delle tragedie dei migranti
nel nostro mare, «cimitero senza lapidi»,
o anche delle brutalità
contro le donne e i bambini.

A dominare nell’orizzonte grigio
di questa superficialità amorfa
c’è qualcosa di più radicale,
ed è la caduta dell’attesa nel futuro:

al massimo ci si affida alla tecnica,
alle mirabolanti ipotesi
dell’intelligenza artificiale,
alle date illusorie,
sempre più dilazionate,
dei vari Kyoto, Parigi, Glasgow
riguardo al “futuro” del nostro pianeta.

Qualche mese fa
mi è capitato tra le mani
il romanzo La clé USB
(e il titolo è, in effetti. emblematico)
di Jean-Philippe Toussaint,
apparso nel 2019 a Parigi.

Il protagonista osservava che
«pure con l’eccellenza degli strumenti
di cui disponiamo,
l’avvenire non può tuttavia essere predetto.
Come possiamo infatti predire qualcosa
che ancora non esiste?».

E riconosceva di fatto
che il futuro è «del tutto
un cielo immenso
percorso da un vento mutevole,
ora calmo, ora tumultuoso,
resistente alle previsioni».

Nonostante questo,
dobbiamo ripeterci
che è sempre possibile far crescere
e far germogliare
sotto quel cielo un seme,
classificato con un termine
di rado praticato, la speranza.

Era stato Cristo stesso a ricorrere
espressamente a quell’immagine vegetale
al fine di descrivere il regno di Dio
da lui inaugurato:

«Il seme germoglia e cresce…
Il terreno produce spontaneamente
prima lo stelo, poi la spiga,
poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,27-28).

Come ha insegnato anche un filosofo
non credente, Ernst Bloch,
col suo Principio speranza,
le religioni, la cultura,
l’impegno sociale e umanitario
dovrebbero essere come una spina
nel fianco dell’umanità

torpidamente indifferente
o china solo su un presente modesto
o su una realpolitik egoista.

Una delle più felici rappresentazioni
della forza della speranza,
la seconda delle virtù teologali,
è stata delineata da un altro
noto scrittore francese, Charles Péguy,
che a questa virtù
ha dedicato un intero poemetto.

Egli definiva esplicitamente
la speranza, la «sorella più piccola»
delle altre due maggiori,
la Fede e la Carità.

Ora, accade frequentemente
ai bambini – quando i loro genitori
si attardano a chiacchierare per strada
con una persona incontrata
o si fermano a guardare le vetrine –
che essi li strattonino
al fine di procedere oltre.

La Fede, pertanto, ha bisogno
di non sterilirsi nel devozionale
o di rinchiudersi nell’oasi del sacrale,
ma deve progredire
in conoscenza operosa
e in autentica spiritualità,

mentre l’Amore
deve andare oltre il sentimento
e cercare nei volti
delle persone affamate, assetate,
straniere, malate, prigioniere,
nude il profilo stesso di Cristo (Matteo 25).

È la Speranza, in effetti,
a infondere questa spinta.

Allora è necessario immettere anzitutto
un fremito nelle coscienze,
un invito a superare
la porta blindata dei nostri appartamenti,
segno dell’isolamento protettivo
e delle paure talora anche legittime,

al fine di avviarsi
oltre il proprio piccolo mondo
verso le «periferie esistenziali»
ove ha residenza una folla di solitudini.

Scriveva un famoso teologo,
Jürgen Moltmann, nel suo saggio
Teologia della speranza (1964):

«Chi spera in Cristo
non può accontentarsi della realtà data,
ma comincia a soffrirne
e a contraddirla.

La speranza spinge l’uomo
al rifiuto di accontentarsi»,
contestando l’acquiescenza al male
e all’ingiustizia.

Il cristiano, pur ammirando Ulisse
che insegue la patria perduta
nell’orizzonte del passato,

si unisce alla tribù pellegrina
di Abramo che «partì
senza sapere dove andava»,
perché non aveva «quaggiù
una città stabile ma andava in cerca
di quella futura» (Ebr 11,8; 13,14)

le cui fondamenta vengono però erette
già nel terreno dei giorni
e delle opere presenti,
anche dell’anno che è appena iniziato.

Gianfranco Ravasi, «Non possiamo accontentarci.
La speranza con cui entrare nel 2022»,
in “Avvenire”, Domenica 2 gennaio 2022, pp. 1.3.

Foto: Crocus vernus, albiflorus
(Zafferano alpino) / 1zoom.me

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