Selfie

Selfie. Siamo nel regno dei Selfie
sotto la dittatura dei Like

Selfie. Paolo Crepet: «È una gigantesca idiozia:
vittime del protagonismo da due lire».
«Viviamo l’epoca dell’edonismo fotografico.
Ma ricordatevi: è il mercato dei clic».

Selfie. Oggi, nel regno del «Selfie»,
la regina di Biancaneve
continuerebbe a guardarsi,
perfida e truce, dentro lo specchio
o userebbe uno smartphone
al fine di scattarsi un selfie?

È davvero lui, il signor Selfie,
il nuovo specchio delle brame?

A guardare i dati dei social pare proprio
che la marcia del selfie sia inarrestabile.

Fare un selfie,
da soli o in compagnia,
è un fenomeno che
(secondo le più recenti statistiche)
riguarda il 60 per cento degli italiani,

coinvolge anche gli anziani,
i gruppi di amici, ed è diventato
un mezzo di comunicazione:
diciamo chi siamo
e come stiamo con un selfie.
Senz’altro aspettando un like,
un “mi piace”.

Poi c’è chi
si prepara a lungo al selfie,
chi studia la posa,
e chi sfrutta anche
l’ultima messa in piega,
il tatuaggio che osa,

chi addirittura si lancia nel «selfie estremo»,
come, ad esempio,
la modella russa Viki Odinctova
che si arrampica su edifici metropolitani
al fine di scattarsi selfie da brivido.

O invece, chi riesce nello scatto della vita
come l’australiana Jessica Bloom
che è riuscita a inquadrare
anche Bruce Springsteen
che guarda dritto
nella sua fotocamera tra la folla.

C’è anche chi sa costruire una carriera
da selfie-blogger
(in particolare fashion-blogger,
specialisti di selfie modaioli)
catturando sui social
migliaia e migliaia di follower
e di like.

Per non parlare dei politici,
che concedono selfie ogni dove
o per non parlare dei calciatori
e/o di tanti altri campioni dello sport
che non firmano più autografi
ma allungano il collo dentro un selfie.

259 morti dal 2011 al 2017 al fine di scattare selfie estremi / stintup.com

Nel regno dei selfie,
sotto la dittatura dei like,
abbiamo intervistato Paolo Crepet,
notissimo psichiatra e sociologo,

che ha appena pubblicato
“Baciami senza rete”,
un libro di successo (ed. Mondadori)
che affronta il nodo contemporaneo
della “seduzione digitale”.

Crepet, l’inarrestabile avanzata del selfie
è legata all’uso dei social
come Facebook, Instagram, WhatsApp?

Sì, in ogni caso

Ed è un morbo
che ha preso gran parte dei politici…

Io consiglio a qualsiasi politico
di non arrendersi all’idiozia.

Idiozia?

Sì, guardi.
Questo protagonismo
da due lire con centomila selfie
è davvero una pratica idiota.

Il lato comico e insieme drammatico
è che ti fai l’autoscatto
e non lo tieni per te,
ma lo mandi in rete.

Dove c’è la complicità del popolo dei social,
perché poi tutti mettono i like…

Precisamente.
Siamo nell’epopea
dell’edonismo fotografico.

Se poi l’amico/a
manda in rete
la foto del suo cappuccino,
io quando lo ricevo
non posso dirti:
ma vai a farti benedire
tu e il tuo cappuccio,

perché altrimenti
qualcuno resta scioccato
e io rimango tagliato fuori.
E allora devo dire:
che bello, buon giorno caro.

Il nostro protagonismo, ad ogni modo,
pretende uno scambio:
il mio protagonismo in cambio del tuo…

E a questo punto coinvolge tantissime persone,
senza distinzione di ceto, di studio…

Ma certo!
Io conosco
tantissime persone intelligenti,
o che sembrerebbero intelligenti,
che rimangono intrappolate
in queste dinamiche.

E c’è l’edonismo fotografico,
come dice Crepet.

Si, pazzesco.
Pensi che ai tempi
della mia prima attività psichiatrica
andavo in alcuni ospedali psichiatrici
con dei fotografi di livello mondiale.

Adeso io incontro quei fotografi
e dico loro:
a quell’epoca eravate 500
in tutto il mondo,
adesso siamo 4 miliardi di fotografi!
E tutti senza talento!

Eppure siamo nell’epoca del “talent”
come si può vedere, giusto?

Talent?
Qui, con i meccanismi dei social
la foto da arte si è trasformata
in banale comunicazione idiota.
Anzi, più la foto è scema
e più è virale.

A Sanremo ha vinto una canzone,
“Occidentali’s karma” la quale tuttavia
mette alla berlina un po’ tutto ciò
che riguarda web & social.
Le cito una frase:
«soci onorari del gruppo
dei selfisti anonimi».

Senta. Non facciamo gli ingenui.
Prima regola
che deve valere per tutti.
Sappiamo che dietro tutto questo gioco
dei selfie e dei social
c’è il meccanismo miliardario
dell’economia dei clic.

Che sia Beppe Grillo col suo blog
o il gattino che fa rotolare
il gomitolo nel video,
qualsiasi cosa sia,
ciò che conta
è che i clic si moltiplichino.

D’accordo.
Ma un esempio chiaro e netto?

Le fashion blogger.
Lei capisce di che cosa parlo no?
Sono persone che si fondano sul nulla:
non hanno i numeri di Armani
o di un grande stilista,
sono solo vagamente belline
e totalmente ignoranti.

Il loro successo si basa
sulla totale mancanza di talento
in cui si rispecchi
la mediocrità generale,
per cui tutti possano sentirsi
possibili protagonisti.

Eh, ma qualcuno o qualcuna
avrà pure qualche numero, o no?

Parlo perché ne ho conosciute alcune
durante qualche dibattito.
Le ho misurate.

La realtà è che sono divenute
degli strumenti di propaganda
per alcune case di abbigliamento.

Poi ottengono diecimila like;
successivamente fanno le ospitate
su un programma
o finiscono nella fotogallery
sul sito internet di un giornale importante
e così il gioco continua e si perpetua.

Però gli sponsor esistono da sempre.

Sicuramente. La differenza, però,
è che un tempo
s’accoppiavano a persone di talento.

Certo! La signora Raffaella Carrà
portava con sé un portfolio
(allora si diceva così) di pubblicità.
Ma era basato sul talento
della signora medesima:

signora di gran classe, gran ballerina,
donna audace (ricorderà
che scopriva l’ombelico),
nonché voce per canzoni
assolutamente popolari,
tanto da sfondare anche
in altri paesi e in altri continenti.

Adesso, invece, siamo al banale
e allo scontato.

Ma attualmente tutti si cimentano
con questo selfie, non le pare?

Sì. E non è la foto che importa:
a essere centrale
è sicuramente la proiezione di sé
che vi è contenuta.

Giusto per fare un esempio,
le sforno i dati della Gran Bretagna:
nel 2015 il numero di chi si è sottoposto
a interventi di chirurgia estetica
è cresciuto del 13 per cento.

Il motivo?
Non volevano
che un selfie mostrasse
i difetti nel loro volto.

Ma c’è anche chi lo fa
perché è condotto dalla grande onda, no?

Tutti si cimentano, certo.
Ma tutti finiscono dentro
l’economia dei clic.
È una bolla:
spero che prima o poi scoppi.

Però ci sono anche persone autorevoli,
come Papa Francesco
che accettano di fare selfie.

In questo caso
credo sia il suo staff
a consigliargli di tenere il passo coi tempi.

Credo che lo faccia soltanto
al fine di non essere considerato antico,
perché la chiesa ha bisogno
di creare un rapporto semplice
e naturale con i giovani.

Immagino che, come Francesco,
l’avrebbe fatto anche Wojtyla.

Ma la comunità virtuale tuttavia esiste.
Anzi la “selfish community”.

Si, parte dell’identità umana
sta correndo il rischio di racchiudersi
in un piccolo mondo
fatto di sms, like, cinguettii di Twitter,
selfie di Instagram o Facebook.

Che cosa si può fare?

Io vorrei tanto che,
tanto per iniziare,
tutte le scuole abolissero
l’uso dei telefonini
durante l’orario delle lezioni.

È infatti necessario che venga insegnato
che la vita è “anche” reale.

Paolo Mantovan, «Siamo nel regno dei Selfie
sotto la dittatura dei Like»,
inserto de “La Domenica del Trentino”,
allegato al “Trentino”,
domenica 19 febbraio 2017, p. 1.

Foto di apertura: Jessica Bloom
inquadra anche Springsteen / irishmirror.ie

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