Claudia Campus, «Nonostante la malattia amo la vita»
A colloquio con Claudia Campus
autrice del libro «Perfettamente imperfetta»
Claudia Campus – «Chi soffre
della mia malattia
viene chiamato “bambino farfalla”.
Mi è sembrata strana
questa descrizione della malattia
perché la farfalla è leggera
e la malattia è pesante».
A scriverlo
in un libro autobiografico intitolato
Perfettamente imperfetta
(Qui Edit, Verona, 2023,
pagine 109, euro 13)
è Claudia Campus,
40 anni, nata a Berchidda,
paesino nel nord della Sardegna,
affetta fin da neonata
da una malattia rara,
l’epidermolisi bollosa.
Una malattia crudele
che distrugge la pelle,
che richiede ogni giorno
ore di medicazioni
e che intacca a volte
anche l’esofago
non permettendo di mangiare.
Inoltre, nel 2015,
a causa di un carcinoma
Claudia Campus ha subito
l’amputazione di un piede.
Nonostante questo calvario,
lei resta fedele al suo motto:
«Una vita mi è stata data,
questa.
E io cerco di viverla
ogni giorno
nel miglior modo possibile».
Aiutata da tante persone
a cui è grata
e soprattutto da suo padre,
venuto a mancare due anni fa,
non ha mai mollato
la presa sulla vita.
«De André con una bella canzone
– osserva Claudia Campus
diceva “Dio dal cielo,
se mi vorrai amare,
scendi dalle stelle
e vienimi a cercare”.
Qualche volta ho pensato che Dio
è rimasto sempre sulle stelle
e non è mai sceso a incontrarmi
e accompagnarmi.
Oggi devo cambiare idea:
Dio, il mio Dio,
e non quello a mani giunte
chiuso in sacrestia,
ha mandato a me varie persone
per accompagnarmi
nei chilometri della malattia
e sofferenza».
***
Claudia Campus – Il tema
dell’essere felici,
della voglia di vivere
è molto presente
nella sua testimonianza.
«Non ho raggiunto
la felicità che desidero»,
sottolinea nell’autobiografia,
«ma so di desiderare e amare
il bello della mia vita.
Innamorarsi della propria vita
significa vivere
e continuare a lottare
contro le avversità, le difficoltà,
e contro quel pessimismo ansioso
che ogni tanto vorrebbe sconfiggerti».
La sua vita
è anche un’esortazione forte
per tanti giovani
che si sentono esclusi, scartati,
guardati con disprezzo
o indifferenza:
«Vorrei dire ai giovani
– lei che si sente giovane nel cuore –
di essere sempre se stessi,
di lottare e superare i momenti
in cui si sentono diversi
da ciò che impone la società».
In occasione
della Giornata mondiale del malato,
Claudia Campus si è soffermata
con «L’Osservatore Romano»
sulla sua vita,
sulle sue fatiche e speranze
offrendo un vibrante messaggio
per quanti patiscono
a causa di varie patologie
e per coloro che ogni giorno
si impegnano
a stare vicino a chi soffre.
Claudia Campus
Nella nostra società
si è sempre più portati
a rimuovere dai propri pensieri
la sofferenza, la malattia,
come se non ci potesse essere
in qualche modo una vita piena
se non si è perfettamente in forma.
La tua esperienza
sembra testimoniare
esattamente il contrario.
Come è possibile allora
essere felici anche nella sofferenza?
Diciamo che la parola “felicità”
in questo caso è tanto,
non è proprio esatta,
nel senso che, più che felici,
ci si adegua a questa vita,
cercando di non farsi mancare niente,
di vivere ogni giorno appieno
e di essere felici
anche delle cose più piccole
che ci capitano.
E ciò mi porta,
a maggior ragione,
a cogliere e a essere felice
per le piccole cose della vita.
Per me questo è felicità,
questo è stare bene,
nonostante la sofferenza
e la malattia ti precludano
anche tante cose.
Questa per me è la “felicità”,
tra virgolette,
perché la felicità è altro.
Però, ripeto, parlo per me,
cerco di accontentarmi
di quello che ogni giorno
mi viene dato.
Per me è già un giorno in più,
e questa per me è la “felicità”.
Io amo tanto questa vita
ed esserci,
nonostante tutto,
è importante per me.
***
Claudia Campus – Facci un esempio,
Claudia,
di una di quelle “piccole cose”
che ti rendono felice.
Quando mi sveglio,
per esempio,
e vedo una bella giornata di sole,
e posso uscire,
anche se in carrozzina,
a fare una passeggiata,
incontrare le amiche,
le persone a cui tengo,
mia cugina:
persone che mi fanno stare bene,
che mi fanno bene al cuore.
Claudia, vedendoti,
si viene catturati – letteralmente –
dalla sottolineatura
che fai dei tuoi lineamenti,
dei tuoi occhi,
del sorriso smagliante.
Una cura attenta
della tua bellezza.
Ecco, ti chiederei:
è una mascheratura
dei danni della malattia
oppure è un modo per custodire
il proprio corpo
in tutta la sua femminilità?
È un po’ tutte e due le cose.
Visto che per la mia pelle,
purtroppo,
non c’è una cura,
ed è una malattia evidente,
esterna per lo più,
di conseguenza
ha un impatto visivo molto forte.
A me piace molto truccarmi,
mi piace innanzitutto
essere carina per me stessa,
e poi essere piacevole
anche allo sguardo del prossimo.
Invece di soffermarsi sulle mani,
magari si soffermano sul viso.
Cerco un po’ – dico sempre –
di aggiustare quel che non posso.
Perché la mia pelle
non la posso guarire
ma il mio aspetto
lo posso migliorare:
il viso, gli occhi.
Claudia Campus
Ti sei mai sentita emarginata,
isolata per la tua condizione?
Se sì,
come hai affrontato le difficoltà
dovute alla malattia che,
come sottolinei anche nel libro,
ti fa “navigare in acque agitate”?
Sì, capita di sentirsi isolati,
soprattutto da quando
sono in carrozzina,
perché, per la verità,
prima di subire
l’amputazione dell’arto,
ho sempre vissuto
una vita abbastanza normale,
o meglio ho cercato di far sì
che la mia vita fosse come quella
della maggior parte delle persone,
delle mie coetanee.
Nonostante ogni mattina
la medicazione ci sia sempre stata,
dall’età di 14 anni, però,
fatta quella,
chiudevo tutti i miei problemi,
le medicazioni in casa,
uscivo e mi godevo la mia età,
la mia spensieratezza.
Perché, nonostante la malattia,
ho anche avuto
i miei momenti di spensieratezza.
Mentre,
da quando sono in carrozzina,
comunque dipendo dalle persone
che mi aiutano,
è tutto più complicato
e si soffre anche la solitudine
perché non sei libera di uscire
e di fare ciò che vuoi.
In più io abito da sola,
non ho una famiglia
purtroppo al mio fianco
che mi sostiene e che mi aiuta.
E quindi è tutto più complicato,
e ho imparato a convivere
anche con la solitudine.
***
Claudia Campus – Durante la pandemia,
immaginiamo che questo che ci racconti
sarà stato ancora più duro.
Quando era ancora in vita mio padre,
gli chiedevano:
“Claudia come la sta passando,
come sta vivendo il fatto
di rimanere chiusa in casa?”.
In realtà già da un po’ d’anni
ero in questa situazione
e già vivevo
quell’essere chiusa in casa.
Io a volte
– l’ho anche scritto nel libro –
la vita la guardo
attraverso la finestra,
perché passano anche settimane
in cui resto chiusa in casa,
come adesso
che da poco ho affrontato
un altro intervento
e sono già due settimane
che non esco.
Nonostante tutto sono grata,
l’importante – dico sempre – è esserci.
Claudia Campus
Spesso si usa la metafora della guerra
quando si fa riferimento
alla lotta che si deve fronteggiare
con la malattia.
Tu lo ritieni appropriato
questo linguaggio?
Non si finisce per creare eroi
quando ce la si fa
e vittime dall’altra parte
quando non ce la si fa?
Io non mi reputo un’eroina
e mai lo sarò.
Semplicemente
sto affrontando una malattia.
È un termine, sì,
che secondo me
non è proprio appropriato.
A volte l’ho sentito in ospedale
per i bambini più piccoli,
forse per loro un pochino sì,
si dovrebbe dire per loro.
Però, per me stessa, no.
Se combatti una malattia,
purtroppo,
stringi i denti
e cerchi di andare avanti
e di combattere.
Ma non sono un eroe,
assolutamente no.
Nonostante i danni
che il morbo ha causato
anche alle tue mani,
non hai rinunciato a scrivere.
Come senti che la scrittura
ti ha sostenuto
e continua a sostenerti
nella malattia?
Tanto, perché innanzitutto
è un metodo per sfogarsi.
Io ho iniziato il libro
perché volevo comunicare
con mio padre,
che ero triste e avevo bisogno
di parlare con lui in qualche modo.
Ovviamente, purtroppo,
non mi ha mai risposto
perché non c’era già più,
però è da lì
che è iniziato il libro;
da lì,
volendo comunicare con lui,
ho iniziato a scrivere.
Ci sono stati dei giorni
in cui scrivevo senza sosta,
avevo proprio bisogno di quello sfogo.
Aiuta tanto, secondo me.
***
Claudia Campus – Proprio nel libro
che hai scritto
per raccontare la tua vita, intitolato
Perfettamente imperfetta,
ci ha colpito,
e crediamo che colpisca tutti,
il tuo rivolgerti ai giovani, e non,
con condizioni di malattia
o di sofferenza, incoraggiandoli
a essere sempre se stessi,
a lottare e a superare
i momenti in cui si sentono diversi
da quello che impone la società.
Come sei arrivata
a questa convinzione
nel percorso accidentato
della tua vita?
Ci sono arrivata perché
tante volte la vita
ho rischiato di perderla.
E quando arrivi
a quel punto lì hai paura.
Ti vengono anche a volte
paure inutili, però
ti attacchi talmente tanto alla vita
che sei grata di ogni cosa.
Quindi quando vedo questi giovani
che a volte la perdono
per cose futili,
perché alcune volte
– è brutto da dire –
“se la vanno a cercare”
anche con i social
che creano delle sfide,
queste cose mi fanno paura.
Quando ancora
non c’erano i social,
secondo me,
molte cose erano più belle,
c’era più spontaneità, tranquillità.
E poi
si vuole crescere
prima del tempo.
È tutto troppo avanti.
Io penso: a 13, 14 anni, non dico
che ancora giocavo con le bambole,
però una via di mezzo tra quello
e ciò che c’è adesso.
Adesso c’è troppo “tutto subito”,
tutto “troppo avanti”.
Adesso purtroppo per i giovani
c’è il bullismo, molte volte
se la prendono con i più deboli.
Ci sono ragazzini
che non hanno la forza di reagire
e si tolgono la vita.
Anche questo
mi fa molta paura
perché io per prima potrei,
in alcuni momenti,
per la malattia che è molto visibile…
Ho ricevuto parole,
sguardi che non facevano piacere.
Claudia Campus
Con quale spirito
hai affrontato queste situazioni?
Ringrazio Dio,
ringrazio il mio carattere
– che secondo me
è stato tramandato da mio padre –
di sdrammatizzare,
di essere perfino io
a “prendermi in giro”,
per la mia condizione.
Questo mi ha aiutato
a stringere i denti,
e a non curarmene,
a far finta di niente.
E quindi dico ai giovani
di non avere vergogna,
di non avere paura di certe parole
che vengono dette,
perché sono ragazzate,
passa.
L’importante è che noi
stiamo bene con noi stessi.
Tua nonna, tuo padre,
una famiglia romana,
i medici dell’Ospedale Bambino Gesù:
ci sono tante persone
che ti sono state vicino
e continuano ad accompagnarti,
ad aiutarti.
Cosa ti hanno insegnato
e cosa pensi tu di avere insegnato,
di aver donato a loro?
Mi hanno insegnato
ad amare la vita,
qualunque essa sia,
ad amarla e rispettarla.
Cosa io ho insegnato a loro
non so, a crederci, probabilmente,
a crederci, a non arrendersi,
e a trovare il bello
anche se il mondo
ti sta cadendo addosso;
a cercare di non vedere tutto nero
ma lasciare sempre aperto
quel piccolo spiraglio di luce
perché prima o poi
secondo me
il sole torna,
nonostante la sofferenza, la lotta.
Perché per questa malattia
non c’è cura
e io lo so che ogni due per tre
sarò nelle sale operatorie.
Però apprezzo quei mesi
in cui sono fuori
dalla sala operatoria,
quel periodo
in cui sono fuori dall’ospedale
e apprezzo queste cose
e penso di avere insegnato
anche a loro tutto questo.
***
Claudia Campus – La prima cura
di cui abbiamo bisogno
nella malattia
– scrive Papa Francesco
nel messaggio
per la Giornata mondiale
del malato di quest’anno –
è la vicinanza piena
di compassione e di tenerezza.
I malati secondo te
possono aiutare la società
a essere più umana
e in fondo anche la Chiesa
a essere più aderente al Vangelo?
Un po’ sì.
Per la Chiesa aderente al Vangelo,
non saprei,
però
a rendere la società più umana sì,
se solo ci ascoltassero
o se solo ci guardassero
con occhi diversi
da come veniamo visti,
perché a volte veniamo guardati
con l’occhio della pietà
che a me dà fastidio,
non lo sopporto.
Si impara se veniamo visti
come essere umani
e non come alieni.
Quando
si è toccati così profondamente,
nella carne,
è naturale fare domande a Dio,
interrogarsi su Dio.
Come vivi il rapporto con la fede,
con la preghiera?
Sono una ragazza
che non va a dormire
se non dice le preghiere,
ogni notte.
Sono anche una ragazza
che si arrabbia con Dio
quando per l’ennesima volta
viene messa la mia vita a dura prova,
e quindi allora ci parlo, con Lui,
arrabbiata.
Poi mi passa,
la sera dico sempre le preghiere
e penso che se sono arrivata
ai miei 40 anni
lo devo a qualcuno che c’è lassù,
in cui credo,
come lo devo alle persone
che non ci sono più in questa vita
e che sicuramente
continuano ad aiutarmi da lassù.
Invoco sempre Dio:
nelle cose belle lo ringrazio,
così come lo invoco
quando non sto bene.
Claudia Campus
Con la tua malattia purtroppo
l’aspettativa di vita è bassa;
già essere arrivati a 40 anni
– tu stessa lo annoti nel libro –
è una conquista
per certi aspetti quasi “miracolosa”.
Cos’è il futuro per te?
Nella mia situazione
parlare di futuro
è una cosa grande,
per me il futuro
è ogni giorno in più.
Il futuro non lo so,
però tante cose belle
perché quelle brutte
penso di averle già avute
a sufficienza
e quindi spero
in una rivincita:
che ci siano solo giornate,
mesi, anni belli davanti,
anche se, ripeto,
non so se sarà così.
Già domani
se è una bella giornata
e io sto bene, non ho dolori,
è già qualcosa di bello per me.
Ogni giorno
in qualche modo
è il tuo futuro.
Sì, per me sì.
Alessandro Gisotti e Antonella Palermo,
«Nonostante la malattia io amo la vita»,
in “L’Osservatore Romano”,
sabato 10 febbraio 2024, p. 9.
Foto: Copertina di
«Perfettamente imperfetta»
di Claudia Campus / picclick.it