Camorra

Camorra. I giovani si ribellano
Chi tace è complice

Camorra. Di solito i convegni e i dibattiti hanno il potere,
dopo un po’, di distrarmi, o, peggio, di farmi simulare
quella tesa attenzione tipica di chi pensa ad altro;
ma ecco un’eccezione delle più stimolanti, proprio a Napoli,
la città dell’eterno dopo terremoto.

È il convegno «La cultura contro la camorra»
promosso dal Coordinamento degli studenti napoletani
che vogliono combatterla, al quale hanno contribuito la Cgil scuola,
il Cidi (genitori democratici) e la Mensa dei bambini proletari.

Geppino Fiorenza ha redatto per il convegno
un’interessantissima rassegna stampa
sulla camorra che utilizza i bambini,
sui giovani che si ribellano a questa violenza cieca e diffusa.

Hanno parlato docenti universitari, politologi, scrittori,
il vescovo di Acerra, il presidente della Commissione antimafia,
onorevoli del Pdup, il responsabile meridionale del Pci,
insegnanti di scuole medie d’ogni partito, venuti anche da Palermo,
figli di uomini massacrati dalla mafia e ragazzi che al microfono
hanno raccontato le loro esperienze e i loro progetti.

Hanno parlato tutti davanti a un incredibile e coloratissimo agglutinamento
di giovani, stipati per due giorni nei saloni di Castel dell’Ovo,
e il terzo giorno, dopo un corteo impressionante
che ha attraversato la città, nella sala del vastissimo cinema Fiorentini
dove a piramidi e a grappoli i giovani grondavano dappertutto,
barbe, treccioline, giubbotti, golfoni fatti dalla mamma.

L’andamento del convegno, che avrebbe dovuto essere ascoltato
da tutta quella gente che dimentica con grande facilità e digerisce tutto,
si poteva definire a moto ondoso, perché con maggiore o minor violenza
si alternavano i temi ricorrenti, i cocenti ritornelli.

I luoghi dove hanno le radici mafia e camorra,
il silenzio della stampa, il disarmo degli intellettuali,
quindi il caso Piccoli sul quale si è molto insistito.

E ogni tanto un ragazzo scandiva al microfono:
«Vogliamo essere liberi, non abbiamo più paura,
ci siamo tolti il sasso di bocca».

«Sbaglia chi afferma che mafia e camorra sono un tumore maligno
sul corpo sano della società e dello Stato,
come se Cutolo e gli altri fossero degli alieni in mezzo a noi»
dice Antonio Bassolino.
«Mafia e camorra non sono lo Stato e l’anti Stato, ma sono ormai
dentro le istituzioni, nelle Regioni e negli enti locali».

Cosa fare? Colpire in alto, colpire i vertici conniventi.
Anche secondo il presidente della Commissione antimafia, Abdon Alinovi,
i due mali sono forze interne allo Stato costruito sulla corruzione.

Sarà Alfonso Gianni, deputato del Pdup a ricordare la definizione
che della mafia aveva dato Pio La Torre:
«Un fenomeno che essenzialmente riguarda le classi dirigenti».

L’incontro con un amico che non vedevo da tempo
mi fa perdere buona parte dell’intervento di padre Antonio Riboldi,
per 20 anni parroco a Santa Ninfa nel Belice e dal ’78 vescovo ad Acerra.

Quando entro, egli sta sottolineando l’assenza dei democristiani
(«Però si scusano, hanno sempre la febbre»), poi lo sento dire
che «mafia e camorra sono mali pilotati dai partiti per avere più voti».

E insiste sul fatto che se in un partito o in un sindacato
c’è un uomo sbagliato lo si dovrebbe toglier di mezzo,
mio Dio parlo come un camorrista, volevo dire metterlo da parte.
Il che non succede mai,
e i ragazzi ridono a quella specie di saporoso apologo
che sono le sue ultime battute.

Quando nel ’76 volle portare a Roma 57 bambini di Santa Ninfa,
per indurre le più alte autorità dello Stato a far sì che dopo nove anni
le baracche diventassero case, i topi non corressero tutta notte sui letti
e a dodici anni i bambini non avessero l’artrite,
un mese prima di partire li aveva incaricati di scrivere delle letterine
ai deputati e ai senatori per chiedere aiuto.

«Ma chi sono?» avevano domandato i bambini.
«Chiedetelo ai vostri genitori»
e qualche giorno dopo i bambini erano arrivati col loro foglietto.

Le lettere, che non furono poi mai spedite
(alle altre comunque non rispose quasi nessuno),
cominciavano con «Carissimo deputato ladro»,
oppure: «Cari ladri che vivete a Roma»
e anche: «Vi pensiamo come un presepe
con la mangiatoia e molti buoi e molti asini che hanno tanta fame».

Nessuno ride più quando sulla pedana degli oratori
sale Gianni, 8° liceo scientifico, indifferente alla camorra
finché ai primi di gennaio a Pomigliano
vede morire un suo compagno di scuola
per una pallottola vagante durante uno scontro tra camorristi.

E ora, pieno di rabbia, si è aggregato anche lui
a questa massoneria della giovinezza.
«Espellere la camorra dalla società sarà il nostro impegno di vita».

A più riprese e a più voci viene quindi deplorato
il silenzio degli uomini d’opinione.
«Ogni intellettuale che dorme si svegli» dice Alfredo Galasso
del Consiglio superiore della magistratura.
«I politici, gli economisti, i giornalisti, gli insegnanti
mettano al centro delle loro iniziative la lotta alla mafia».

E Corrado Stajano: «Solo gli intellettuali medi rispondono, il prete,
il professore, il magistrato, non certo gli scienziati della politica,
i giuristi e i sociologi, gli scrittori di successo.

La sentenza istruttoria del giudice Falcone di Palermo,
zeppa di notizie sensazionali, è certo più importante
(non solo per il coraggio, ma anche per la varietà degli intrecci)
dell’opera letteraria di tanti nostri autori».

Ogni tanto, tra uno sdegno e l’altro,
salta fuori Piccoli col suo delirio di bugie.
Come si può pensare che nell’81 non sapesse chi era Cutolo,
quando dal ’78 in poi sorrideva dalle pagine di tutti i giornali?

Piccoli era segretario della Dc,
e dice di aver saputo delle trattative per Cirillo
dai giornali che non leggeva.

Ingenuo com’era, ogni mattina alle sette e mezzo a casa sua
aveva ospite per un buon caffè l’esperto dei più loschi affari italiani,
Francesco Pazienza, e di che parlavano?
Del gattino malato, pare, non certo del caso Cirillo.

Quindi Vito Faenza, il massimo esperto napoletano di camorra
e di casi giudiziari, nel più gran silenzio legge il verbale di Alvaro Giardili
(braccio destro di Pazienza) che apparirà quattro giorni dopo
sul settimanale l’Espresso, ricco di incontri tra Flaminio Piccoli e Pazienza,

di incarichi dati dal segretario a costui perché facesse tutto il possibile
per salvare Ciro Cirillo usando le sue conoscenze nella malavita;
e le promesse di Pazienza e Casillo (braccio destro di Cutolo),
diligentemente mantenute, mentre Piccoli non mantiene le sue.

Chi parla di affondare il bisturi
nel rapporto tra camorra e istituzioni nel campo minorile
è il sociologo Luciano Sommella, direttore del Filangieri ;
perché tutto fanno le istituzioni fuorché tutelare i diritti dei minori.
E annuncia il revival dei bambini che dai cinque ai dieci anni
sono abilissimi nel rubare portafogli sugli autobus.

Sono i figli dell’abbandono, della miseria
e dell’arte dell’arrangiarsi, non vanno mai a scuola,
nessun assistente sociale se ne occupa, e il padre,
se tornano a casa la sera senza soldi, li bastona a sangue.
(Nell’81 ci sono stati ventun infanticidi per botte).

Presi sul fatto, i bambini sciolti o «presi in fitto»
dalla camorra di basso rango, vengono rilasciati,
altrimenti sono chiusi in case di correzione,
per tornarvi a intervalli regolari.

«Perché bisogna dirlo forte e chiaro,
l’educazione in carcere è una nobile bugia.
Il carcere non è e non può essere una struttura liberatoria,
al contrario, è distruttiva, specialmente per i minori.

Quando escono, a 14 o 15 anni,
dopo aver giurato solennemente di non rubar più portafogli,
si danno ai taglieggi e alle rapine».

Si arriva così al silenzio stampa,
al distacco col quale i giornali scrivono di questo congresso
(quando non tacciono, e perfino l’Unità,
il giornale del Partito comunista italiano,
non sempre ha dato prova di coraggio).

«Non interessa» risponde il grande quotidiano
se gli si chiede di pubblicare l’appello degli intellettuali
(quelli che non dormono) contro la mafia e la camorra,
ormai intesa come associazione mafiosa.

Della stampa parla Nando Dalla Chiesa, applauditissimo,
con quella sua dignità sommessa che a tratti diventa aspra denuncia.

«Il quarto potere oggi non esiste,
ma è un’emanazione del secondo potere.
In una società dell’informazione, com’è possibile
combattere mafia e camorra se non c’è l’informazione?

La partecipazione e l’emozione sono finite dopo l’assassinio di Dalla Chiesa.
E adesso vedete in che modo, attraverso infiniti editoriali,
cronache e lettere si difende il presentatore televisivo Enzo Tortora
che non so se è colpevole o innocente,
e com’è stato liquidato invece l’assassinio del giornalista Pippo Fava,
morto per le sue idee nel pieno esercizio delle sue funzioni».

E poi: «Certo si parla di mafia sui giornali,
ma soprattutto intervistando ministri o alti commissari,
senza raccogliere la voce della società che la combatte.
Sono brutti tempi per la democrazia,
perché il negarsi della stampa porta al negarsi del potere»,

e anche lui insiste sul tema-chiave:
«Va espulso dalle istituzioni il potere criminale.
Questo convegno non deve restare senza risposta».

Claudio Fava, figlio del coraggioso giornalista da poco ucciso,
non viene per far commemorazioni, ma per portare una testimonianza:
cioè «Il giornale I siciliani continuerà a esistere insieme al nostro impegno».

Egli lascia al pubblico il compito di decifrare le ragioni
per cui al funerale di suo padre non c’erano uomini politici
né rappresentanti dell’associazione giornalisti
(cattiva coscienza, senso di colpa, indifferenza, assuefazione, chissà)
e denuncia i tentativi in corso per depistare le indagini.

«Lunedì scorso ero andato a Roma,
a Montecitorio alla discussione sulle interpellanze
riguardanti la morte di mio padre.
Ebbene, c’erano soltanto dodici deputati in aula
tra cui i sette firmatari delle interrogazioni.

E chi ha parlato a nome del governo è stato un sottosegretario
che si è limitato praticamente a riassumere
cose scritte dalla nostra rivista non più di un mese fa.
È stata una vera beffa, che ha dimostrato
l’esistenza di morti di serie A e di serie B».

Infine dà tre definizioni della mafia.
«La mafia è un fitto intreccio con i trust economici. La mafia
è l’aula di Montecitorio deserta quando si dibatte un problema di mafia.
La mafia è lo scetticismo in cui si sono ritirati oggi
quasi tutti gli intellettuali cosiddetti impegnati».

Padre Antonio Riboldi, vescovo di Acerra / napoli.fanpage.it

Rivedo monsignor Riboldí ad Acerra
nel suo palazzo vescovile dove fa molto freddo.

Ha un golf nero, pesantissimo, sopra la tonaca;
sul petto gli pende una croce d’argento
con un Cristo per la verità un po’ rachitico,
che gli hanno fatto gli Artigianelli,
l’anello pastorale è la vera di sua madre:
al posto della pietra, un ovale d’oro con la Madonna.

Nato in Brianza, tempratosi nel Belice,
è stato il primo a organizzare un movimento di studenti.
L’idea gli è venuta due anni fa ad Acerra,
quando davanti agli studenti che stavano andando a scuola,
fu ucciso un avvocato molto stimato in città.
«Come se la città fosse stata schiaffeggiata» spiega il vescovo.

Ma i manifesti a lutto per le strade,
per la pavidità di un paese camorrista (già undici morti quest’anno)
compiangevano il cittadino «prematuramente scomparso»,
mentre gli studenti ne affissero altri con la precisazione «assassinato».
E la mattina del funerale fecero un’assemblea nel palazzo vescovile.

«È indegno accettare di vivere come topi» li arringò monsignor Riboldi.
«Imparate voi a non aver paura e a essere liberi».

E nonostante la proibizione di presidi e genitori,
proprio quello stesso giorno venne organizzata
per la settimana seguente la marcia su Ottaviano,
il regno insanguinato di Raffaele Cutolo,

e vennero ragazzi da molti istituti campani,
da Pomigliano d’Arco, Nola, Marigliano, Somma Vesuviana,
Torre del Greco, tutti i paesi dove i giovani vivono giorno dopo giorno
una realtà squallida e disumana con due alternative soltanto:
essere assoldati dalla camorra o restar chiusi in casa.

Erano più di cinquemila giovani
(molti eran venuti anche dalla Sicilia)
dai 16 ai 18 anni, con altoparlanti e striscioni:
(«Basta coi massacri», «Unitevi a noi»).

«Erano un popolo uscito dalla paura. Pochissima la gente per la strada,
quasi nulla la partecipazione dei cittadini, qualcuno ai balconi.
“Gente, gente, venite fuori” gridavano i ragazzi gettando volantini
che ricordavano l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Finimmo nella palestra di una scuola.
Un uomo mi avvicinò e “sono un vigliacco” mi sussurrò andandosene subito,
e altri “con lei siamo tanti ma clandestini”.

«Da allora non so quante marce e quante assemblee.
Una settimana in Sicilia, tre o quattro giorni tra Bolzano e Ravenna,
a Gioia Tauro davanti al nostro albergo, poco prima del nostro arrivo
erano saltate in aria due macchine.

E brave anche le donne,
quelle del collettivo di Castellammare di Stabia,
più di cinquemila, che marciando
scandivano il decalogo del buon amministratore:

trasparenza degli appalti,
informazioni su tutte le questioni rilevanti della città,
dichiarazione delle ricchezze dei singoli consiglieri
(“Gente, gente, non stateci a guardare
– venite giù in piazza con noi a lottare”).

«In principio ad Acerra la gente aveva paura di me» riprende monsignor Riboldi
«ma oggi spesso mi applaudono quando in chiesa parlo chiaro:
“La camorra è criminalità organizzata tesa a far soldi illeciti.
Se uno è un camorrista non è più un uomo”.
(Ma la camorra di alto rango non frequenta la chiesa).

E adesso mi chiedono: “Ma lei non ha mai paura?”
Certo mi arrivano continuamente minacce,
biglietti anonimi con scritto “ti ammazzo”,
e la mia risposta è: non deve aver paura chi fa il suo dovere,
noi non vogliamo vivere in un paese di morti vivi».

Il primo risultato del convegno di Napoli, così caldo e vitale?
Che monsignor Riboldi, insieme ad altri esperti in argomento,
sarà a Milano ai primi di febbraio
durante un ciclo di incontri sulla mafia e i modi di combatterla,
promossi dal liceo scientifico di San Donato Milanese.

E la conclusione di quei tre giorni di dibattiti?
«Ormai non si può più tacere senza essere complici».

Camilla Cederna, «Chi tace è complice»,
in “Panorama” 6 febbraio 1984, pp. 43.47.49.

Foto: Manifestazione di giovani contro la camorra / nanopress.it

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